Il libro (A. Savorana, Vita di don Giussani, Bur, 2013, ndr) è un avvenimento in sé e penso che resterà a lungo come uno strumento importante, una pietra miliare per chiunque si voglia avvicinare alla figura di don Giussani, sempre più necessario man mano che il tempo interporrà distanza tra il giorno della sua scomparsa e le persone che si occuperanno di lui e che vorranno conoscerlo. (…)



Quanto al protagonista di questa biografia, non ho titoli per parlarne perché non lo conoscevo. Tuttavia provo a comunicare qualcosa di quanto ho scoperto leggendo il libro. 

Innanzitutto si tratta di una storia; a dire il vero nella Vita di don Giussani si intrecciano più storie: c’è l’uomo, c’è il credente, c’è il prete, c’è il filosofo, c’è il leader. Se mi è consentito l’uso di un linguaggio laico, la parola leader si adatta molto bene al ruolo che ha svolto Giussani, cioè quello di un uomo che guidava. Giussani guidava, ma sapeva resistere alle tentazioni della leadership: come sappiamo, la leadership è una droga potente, pericolosa, che corrompe, che esalta; in lui questo non è accaduto. Leggendo la sua biografia, colpisce molto il puntiglio con cui Giussani riprendeva spesso i suoi discepoli, prima ancora che si accorgessero che aveva ragione, come dire, in anticipo sugli eventi. Forse le vicissitudini e le polemiche di e intorno a Comunione e Liberazione confermano gli allarmi che Giussani aveva lanciato lungo la strada e in tempi non sospetti. 



Soprattutto, dalla lettura emerge un uomo veramente dotato di una eccezionale umanità. L’allora cardinale Ratzinger, nell’omelia funebre, ha detto di lui: «Ha capito […] che il cristianesimo non è un sistema intellettuale, un pacchetto di dogmi, un moralismo, ma che il cristianesimo è un incontro; una storia di amore; è un avvenimento» (p. 1188), cioè una cosa molto umana. E ha usato questa parola, «umanità», non nel senso in cui la intendiamo spesso noi oggi, cioè come la collettività degli esseri umani, ma piuttosto come la profondità di ogni essere umano. Dunque, l’umanità di ciascuno. Sono cose che nel libro emergono con grande nettezza e nitidezza. 



Confesso che l’aspetto che a me preme di più e che mi ha colpito di più di don Giussani è quello dell’educatore. Mi pare che in questo sia rintracciabile l’essenza del suo messaggio. Io ritengo, e in questo condivido alcune posizioni di CL, che quella educativa sia l’emergenza fondamentale della vicenda italiana. D’altra parte, la preoccupazione educativa di Giussani non è in contraddizione con quella per l’umanità di ciascuno; spesso, infatti, diceva che l’educazione è l’attività più appassionatamente umana che si possa svolgere. 

L’impegno di Giussani in campo educativo produce la sua fioritura più eccezionale e duratura, che è il movimento di Comunione e Liberazione, che nasce non a caso a cavallo di quella frattura storica, culturale, ideale e politica del Paese che è il Sessantotto, durante gli anni della rivolta studentesca e con le conseguenze che essa ha prodotto. Io penso che, in quel periodo, in quello spartiacque della storia occidentale, non soltanto italiana, si è determinata una profonda crisi del principio di autorità, che ha uniformato la mentalità di tutti. Intendo dire che, da allora, non siamo più stati d’accordo sull’essenziale. Nel libro ci sono delle definizioni molto profonde, molto pregnanti di questa rottura. Per esempio, ricorda monsignor Camisasca, che quel periodo ha vissuto molto direttamente: «Era entrato in crisi innanzitutto il valore dell’autorità come punto di trasmissione della tradizione e di aiuto a una verifica critica di essa nel presente. Erano i tempi di “Dio è morto”, di “né padre, né padrone”. […] Epoca di un soggettivismo esasperato, che portava ad esaltare i sentimenti, scorporandoli da ogni legame all’oggettività della ragione e della storia» (p. 388). Ecco, questo punto per me è di grande importanza, perché non è possibile un processo di educazione, di trasmissione di generazione in generazione di un sistema di valori senza un principio di autorità. 

Quando Giussani, alla domanda su chi sia l’educatore, risponde: «È uno che riesce a comunicare [ai giovani] certezze e affettività», fa un’affermazione difficile da accettare oggi. Dire «certezza» è pronunciare una parola sospetta, quasi blasfema, perché oggi tutto è considerato relativo. Ma non c’è possibilità di confronto tra le generazioni senza delle certezze, solo a partire dalle quali si può discutere. Le certezze possono essere contestate, discusse e respinte dalle generazioni successive, ma l’educatore le deve proporre comunque, perché se non lo fa, non c’è alcuna possibilità di dialogo. L’educatore dichiara: «Io, autorità, rappresento una parte di te che tu non conosci ancora e con cui ti devi confrontare». E come ha detto don Carrón quando ha presentato a Milano il mio libro Contro i papà: «L’esperienza dell’autorità sorge in noi come incontro con una persona ricca di coscienza della realtà; così che essa si impone a noi come rivelatrice, ci genera novità, stupore, rispetto». Senza questo confronto con l’autorità non c’è possibilità di educazione. 

D’altra parte, Giussani stesso segnalava, perché lo vedeva con lucidità, questo passaggio nella storia culturale dell’Occidente quando, a proposito della rivolta studentesca che è stato il Sessantotto, diceva: «”Per affermare l’autenticità [che in quegli anni diventa il nuovo valore dominante, il nuovo valore scelto dai giovani] al posto dell’equivoco, della menzogna, della maschera di cui si viveva, la proposta […] si poneva come necessità di eversione del passato, inimicizia col passato, ostilità al passato, negazione del passato, o perlomeno, ma è la stessa cosa, dimenticanza e disinteresse di esso”. Un tale atteggiamento […] è semplicistico e, in ultima istanza, ingenuo: “È l’ingenuità fondamentale di Adamo, quando ha creduto che mangiando del frutto proibito potesse esaurire la conoscenza del bene e del male. Insomma, è l’ingenuità di me ‘misura di tutte le cose’, è l’ingenuità dell’uomo che dice: ‘Adesso vengo io a mettere a posto le cose'”» (pp. 395-396). 

Secondo me, in queste parole c’è una comprensione profondissima della rottura della modernità, che è sostanzialmente una rottura della tradizione, tra generazioni, quindi una rottura tra passato e presunto futuro. Io penso che questa lezione sia estremamente importante. (…)

L’altro elemento importante del messaggio di don Giussani che rimane attuale, che genera ancora ed è fertile, è il suo giudizio sulla crisi italiana come frutto del venire meno di valori ideali, dunque come crisi culturale, non esclusivamente come crisi della politica. Una delle grandi deformazioni prodotte dalla lettura riduttiva nata col Sessantotto è stata proprio una sopravvalutazione del valore della politica come strumento fondamentale per il cambiamento del mondo. Anche in Gioventù Studentesca c’è un momento in cui tanti giovani abbracciano questa idea: che sia la politica, alla fine, il modo con cui si possono cambiare le cose, la società. Ma don Giussani resiste e contrasta questa pretesa: «Veramente siamo nella condizione d’essere all’avanguardia, i primi di quel cambiamento profondo, di quella rivoluzione profonda che non sarà mai – dico: mai – in quello che di esteriore, come realtà sociale, pretendiamo avvenga», perché «non sarà mai nella cultura o nella vita della società, se non è prima […] in noi […] una rivoluzione di sé, nel concepire sé» (p. 392). In quel momento, mentre tanti se ne vanno nel Movimento studentesco, Giussani sottolinea: «I nostri antichi amici che scrivono su un gran cartellone fuori della Cattolica “La politica prima di tutto. Mao Tse-tung” […], capovolgono la frase del Vangelo: “Cercate prima il regno di Dio e il resto vi sarà dato”» (p. 412). 

Ecco, io penso che questo, insieme al tema dell’educazione, sia un dato ancora molto presente, come giudizio e come sfida, nella nostra vicenda sociale: l’urgenza della questione culturale ideale, perché la crisi italiana non è risolvibile per via politica. È una crisi di valori, è una crisi educativa, è una crisi di rapporti tra le generazioni, di concordanza sull’essenziale, senza il quale una comunità non può prosperare, tanto è vero che si è determinata questa frattura, insieme a un impoverimento generale. La crisi economica che stiamo vivendo è, all’origine, una crisi valoriale, per il venire meno di una formazione delle nuove generazioni. 

Concludendo, mi scuso se, più che di don Giussani ho parlato di ciò che per me, laico, ha rappresentato l’incontro con il suo pensiero, con il suo insegnamento, se ho posto tutta la mia attenzione sulla priorità all’educazione in relazione a don Giussani e al movimento che si è sviluppato a partire da lui, Comunione e Liberazione. 

A questo proposito, una cosa che è spiegata bene nel libro – e che per mia ignoranza non sapevo – è che in realtà il nome non nasce da lui, ma da un gruppo di giovani dell’Università Statale che alla fine del 1969 avevano stampato quell’espressione – Comunione e Liberazione – sui ciclostilati che distribuivano in facoltà. E gli altri, gli universitari del Movimento studentesco, cominciarono a usare questo slogan per indicare quel gruppo di giovani cattolici. Solo successivamente don Giussani vide uno di quei ciclostilati affisso su un muro e quella formula gli piacque, a tal punto da riconoscerla come il nome di quella nuova amicizia, nata proprio nel mezzo della temperie del Sessantotto: «Ecco, noi siamo il nome che si sono dati gli universitari […] perché comunione è liberazione» (p. 418). Ripeto, mi sono permesso di parlare di ciò che mi appare come importante – importante per la mia vita e per la mia esperienza – della presenza di don Giussani, del suo passaggio su questa terra. 


L’articolo è una sintesi della testimonianza dell’autore contenuta ne “Un’attrattiva che muove. La proposta inesauribile della vita di don Giussani”, a cura di Alberto Savorana, Bur, 2015, ora in libreria. Con interventi di: Bertagna, De Bortoli, De Rita, Groppi, Magatti, Mauro, Mazzarella, Mieli, Modiano, Ouellet, Pisapia, Polito, Riotta, Sansonetti, Sapelli, Violante, Weiler.