Una quindicina d’anni fa, un giovane storico britannico di nome Nicholas Farrell scrisse un beffardo e ironico reportage dal titolo La fabbrica dei complotti. Rileggiamone le parti più significative: 

«Supponiamo che Churchill e Mussolini fossero realmente in corrispondenza epistolare. Perché allora Churchill avrebbe messo in piedi un’operazione per scovare e distruggere le lettere? Che cosa c’era di così enormemente imbarazzante nell’offerta a Mussolini di pezzi di territorio francese e di un pugno di isole mediterranee purché si astenesse dall’entrare in guerra? Beh, un po’ di imbarazzo lo avrebbero potuto creare, ma non tale da togliere il sonno a Churchill. E tuttavia, gli storici e i giornalisti italiani ci vogliono far credere che egli fosse talmente terrorizzato dalla prospettiva che si sapesse tutto, da recarsi personalmente in Italia, prima a Como, poi sul lago di Garda, infine a Venezia, per ben cinque anni di seguito, con il preciso intento di recuperare, con qualsiasi mezzo, le lettere; e addirittura da ordinare alle spie di Sua Maestà britannica di setacciare la penisola per impossessarsi della corrispondenza, costasse quel che costasse. In realtà, Churchill e Mussolini non si erano mai scritti, eccetto per quell’unico e famosissimo scambio di lettere del 1940, quando l’inglese esortò invano l’italiano a restarsene fuori dal conflitto».



Ineccepibile. Intelligente. Furbo. Scritto bene. Ovvero, tutto teso a limitare i contatti Mussolini-Churchill al 1940 e a farne per oggetto la verosimile, probabilissima offerta di territori all’Italia in cambio della sua rinuncia a entrare in guerra. C’è davvero di che vergognarsene, al punto da far ammazzare il Duce (e — con l’occasione — pure la sua amante) perché non rivelassero quella lontana, inutile offerta? E che male poi vi sarebbe, per l’onore di Churchill (magari un po’ meno per il suo acume politico), se saltassero fuori improbabili lettere del premier britannico con un’esortazione a Mussolini di questo tipo: «La prego, entri in guerra. Se la caverà con pochi morti, frenerà le mire espansionistiche del Führer, e io saprò poi come ricompensarla»?



In realtà, il piccolo imbarazzo che eventuali lettere del tenore sopra descritto avrebbero potuto causare a Churchill nel 1945, era stato ampiamente superato già nel dicembre 1940, quando Churchill lanciò un messaggio radio agli italiani additando Mussolini come «il solo responsabile dell’entrata in guerra dell’Italia». E completamente dimenticato nel drammatico radiodiscorso del 29 novembre 1942, dopo la sconfitta italiana a El Alamein: «Un uomo, un uomo solo è il responsabile della rovina del popolo italiano. Noi facemmo del nostro meglio per spingerlo a rimanere neutrale. Ma egli non ci diede ascolto». Parole che dovrebbero chiudere definitivamente il discorso sui «carteggi del ’40».



Con un ampio e documentato intervento sul Corriere della Sera di lunedì 30 marzo, Paolo Mieli ha accreditato, con la sua indubbia autorevolezza, la tesi del ricercatore storico Mimmo Franzinelli, che, nel suo nuovo libro L’arma segreta del Duce. La vera storia del Carteggio Churchill-Mussolini, edito da Rizzoli, sostiene che tra Mussolini e Churchill non vi fu mai uno scambio di lettere segrete. E ciò in netto contrasto con quanto sostenuto da autori come Fabio Andriola (Carteggio segreto Churchill-Mussolini), Arrigo Petacco (Dear Benito, caro Winston), Ubaldo Giuliani-Balestrino (Il carteggio Churchill-Mussolini alla luce del processo Guareschi).

Per quanto mi riguarda, nel mio La pista inglese (Mussolini: the secrets of his death, nell’edizione americana del 2004) ho sostenuto che non fu certo per quel vero o presunto carteggio che il premier britannico ordinò la soppressione del Duce e della sua amante e confidente Claretta Petacci  impedendo che potessero essere ascoltati dopo il loro arresto. Erano infatti ben altri i documenti, le carte, le testimonianze che confermano la “pista inglese” nell’omicidio di Mussolini e di Claretta. Molto opportunamente, nel suo fondamentale studio, Fabio Andriola ricorda che il 10 maggio 1945 Churchill scrisse al feldmaresciallo Alexander per chiedergli che venisse ordinata un’inchiesta sulla morte di Mussolini, e, in particolare, sul perché fosse stata uccisa anche la Petacci. Il premier, in quella lettera, arrivò a definire l’azione del colonnello Valerio “proditoria e codarda”. Il Clnai (Comitato di liberazione nazionale Alta Italia) si era appena assunto la responsabilità di quella esecuzione capitale. Il Clnai agiva il nome e per conto del Governo Bonomi, del Governo del luogotenente Umberto di Savoia. L’onta di quell'”atto di giustizia”, o di quel duplice assassinio, a seconda dei punti di vista, ricadeva dunque sul debole Governo, sul debole sovrano di Roma. Chi mai avrebbe potuto sospettare della lealtà britannica? Tanto valeva indossare i panni di un cavaliere della tavola rotonda.

Nove anni dopo, nell’autunno 1954, un nipote di Mussolini, Vanni Teodorani, avanzò per primo, sul settimanale Asso di bastoni da lui diretto, l’ipotesi che dietro la morte di Mussolini ci fosse stato lo zampino inglese. Churchill non si degnò di prendere in considerazione quel povero e disperato foglio fascista. Aveva invece reagito, con una secca smentita, a un’inchiesta pubblicata nel marzo 1947 sul Giornale d’Italia, negando di avere mai scritto lettere a Mussolini all’infuori di quelle pubblicate nei suoi libri e risalenti agli anni in cui era un ben pagato collaboratore del Popolo d’Italia. Poi, nuovamente premier, aveva ordinato al Foreign Office, il 7 novembre 1951, di diramare un comunicato di analogo contenuto a seguito di nuovi servizi giornalistici apparsi su organi di stampa italiani.

In realtà, nella famosa e misteriosa cartella di cuoio marrone che Mussolini portava con sé all’atto della cattura sulla piazza di Dongo e della quale disse a “Bill” (Urbano Lazzaro), che gliela stava sequestrando, «Attenzione, queste carte valgono più di una guerra vinta», non c’erano lettere autografe dei due statisti, ma relazioni dettagliate dei contatti segreti che continuarono ad effettuarsi durante il periodo della RSI. Sulla natura di quei contatti (definizione più appropriata che quella di “carteggio”) intercorsi tra Mussolini e Churchill a partire dall’autunno 1944 e fino al crollo di Salò, e da me ricostruiti nel libro Vita col Duce, dedicato al suo attendente Pietro Carradori, si possono fare varie congetture. Si può cioè dibattere se l’iniziativa di riaprire il dialogo sia partita dall’italiano oppure dall’inglese. Secondo Fabio Andriola, «nel 1944 due elementi potevano indurre Mussolini e Churchill a riaprire il canale del dialogo: da un lato, il prorompere dell’Armata Rossa in Europa e la necessità di fare argine al nuovo imperialismo sovietico; dall’altro, l’estrema debolezza politica e militare di Mussolini potrebbero avere indotto quest’ultimo a fare pesanti pressioni sul premier inglese, ricattabile per le proprie proposte di qualche anno prima, per ottenere condizioni di pace non umilianti». Dunque, l’iniziativa potrebbe essere partita da Mussolini.

Altrettanto verosimile, però, che essa sia partita dall’inglese, proprio nel tentativo di porre un freno all’avanzata dell’Armata Rossa. Che cosa aveva, infatti, da offrire Mussolini? La resa della RSI, per quanto essa potesse valere, e sebbene fosse impossibile senza il consenso dell’occupante tedesco? Ben altro poteva invece promettere Churchill, nel caso avessero portato a qualche risultato i tentativi del Duce di convincere il Führer a cessare la resistenza in Occidente. Tutto ciò è ampiamente documentato dalle registrazioni telefoniche dei colloqui tra il Duce e Claretta, pubblicate da Ricciotti Lazzero nel suo libro Il sacco d’Italia (Mondadori). Ecco ciò che stava a cuore a Churchill: impedire ad ogni costo che si venisse a sapere che aveva tramato contro Stalin e la Russia, cioè che aveva cercato di pugnalare alla schiena l’Armata Rossa i cui combattenti morivano a decine di migliaia pur di sconfiggere Hitler.

Sulla polemica in corso, abbiamo sentito il professor Ubaldo Giuliani-Balestrino, il quale, oltre che docente, è anche un illustre e affermato avvocato cassazionista. E’ imminente l’uscita di un suo secondo volume sulla questione del «carteggio». S’intitolerà Guareschi era innocente: ecco le prove, e verrà pubblicato da “I libri del Borghese”. Giuliani-Balestrino ha sostenuto nel precedente lavoro — e ora conferma — che le due famose lettere di De Gasperi all’alto ufficiale dell’aviazione britannica per sollecitare il bombardamento della periferia e dell’acquedotto di Roma nel ’44 erano vere. Come è noto, essere furono invece giudicate false dal tribunale di Roma, da cui la condanna a Guareschi, che le aveva pubblicate sul Candido. «Nel mio libro», ci dice l’avvocato e storico, «ricordo che De Gasperi comunicò all’Agenzia Ansa, con un suo comunicato in data 21 gennaio 1954, che contro di lui erano stati commessi più volte tentativi di ricatto. Ciò significava che, ben prima di Guareschi, qualcuno ben sapeva che le lettere erano autentiche. Nessuno, infatti, cerca di ricattare qualcuno avvalendosi di lettere che il ricattato sa di non avere mai scritto. Non per niente, persino l’Unità, giornale del Partito comunista e ostilissimo a Guareschi, chiese a De Gasperi di spiegare perché mai non avesse reagito ai tentativi di ricatto da lui rivelati».

Ma su quella polemica cadde ben presto il sipario, anche per la improvvisa morte dell’esponente democristiano. 

Ad ogni modo, una cosa è certa: come dimostrano le polemiche in corso, a settant’anni dalla morte di Mussolini e dalla fine del fascismo, la verità è ancora tutta da scrivere.