Giovannino Guareschi oltre i film, oltre la critica, oltre l’immaginario comune: Guareschi l’uomo libero. E’ questo il profilo dell’autore delineato da Giorgio Vittadini e da Egidio Bandini, rispettivamente, presidente della Fondazione per la Sussidiarietà il primo, giornalista e condirettore del nuovo quindicinale Candido, storico foglio satirico fondato da Guareschi, il secondo. Erano tutti occupati i 600 posti dell’auditorium Balestrieri di Brescia, giovedì 9 aprile, in occasione della serata di apertura del Mese letterario, organizzata come da tradizione dalla Fondazione San Benedetto e introdotta dal presidente del Ctb Carla Boroni.



Una serata in cui, per una volta, a Brescia, si è respirata l’aria della Bassa parmense, le atmosfere di quel “Mondo piccolo” che la cinematografia — nonostante Guareschi non fosse affatto felice delle riduzioni — ha reso celebri, portando in scena le avventure di Don Camillo e Peppone, ma anche, e soprattutto, le “periferie esistenziali” di personaggi solo apparentemente secondari, uomini talvolta umili, semplici, personaggi “come il Bigio, lo Smilzo, i vecchietti che non vogliono andare nel pensionato, perché preferiscono la libertà, o Giobà il campione, lo scemo del paese, che sa tutte le risposte sul ciclismo, ma non vuole andare a “Lascia o raddoppia”, perché lui non fa le cose per i soldi, lui ha una dignità. 



Se è vero che “dietro ogni scemo c’è un villaggio” come cantava Faber, allora — è la tesi di Vittadini — “Don Camillo e Peppone sono solo la scusa” per narrare la voglia di riscatto insita nell’uomo che seppur umiliato — dalla povertà, dalla guerra o da una condizione sociale che lo degrada agli occhi del mondo, con tutti i suoi difetti — è capace di riscattarsi. 

“Non è vero che Guareschi, e qui è il limite dei film, è un autore comico, Guareschi è un autore ‘triste’, nel senso che di questa tristezza, non tragica, di questo sguardo sull’umano, si accorge attraverso l’emergere dei limiti delle persone, delle cose” ha sottolineato Vittadini, mettendo fine a un cliché che per troppo tempo ha svalutato, a causa di una critica sempre avversa, l’opera di Guareschi. 



“La tristezza nasce dalla consapevolezza che l’uomo — sono sempre parole di Vittadini — è nato per qualcosa di più, non può ridursi a essere schiavo di un’ideologia di partito, non può essere messo a posto con il progresso, con i soldi, con il potere”. E Guareschi, infatti, non si piegò mai di fronte ad alcun potere. E’ stato un autore fuori dagli schemi, non solo durante il fascismo, quando il gerarca Achille Starace fece sequestrare il Bertoldo, rivista umoristica settimanale fondata dal futuro autore di Don Camillo; ma anche in democrazia, con il Candido, visto come fumo negli occhi sia dal rigido apparato del Pci sia dalla Democrazia Cristiana. Un uomo contro, Guareschi, fermo nella convinzione che, quando tutto sembra crollare intorno, dell’uomo rimane solo il proprio “io”, la sua coscienza, che “nei suoi libri è il Cristo, con il suo irriducibile anelito di libertà”. 

Ci sono opere legate indissolubilmente alla biografia dell’autore, pagine intrise del vissuto personale di chi con le proprie esperienze ha tessuto un intreccio narrativo. E’ il caso di Guareschi che nel corso della propria esistenza ha imparato ad apprezzare il valore della libertà, come testimonia Diario clandestino 1943-1945, l’opera scritta durante la prigionia nel lager nazista di Sandbostel, una reclusione causata dal rifiuto da parte dell’autore di aderire alla Repubblica di Salò. 

La prigionia in Guareschi è una costante. Lo ha ricordato Egidio Bandini, ricostruendo l”affaire De Gasperi” che gli costò “405 giorni di carcere e 6 mesi di libertà vigilata, segnandolo più del lager”. Guareschi si riprenderà, porterà avanti il Candido fino al 1961, fino a quando, per intervento di Amintore Fanfani, evidentemente piccato per la satira che lo aveva preso di mira, cessarono le pubblicazioni. L’ultimo colpo, questo, dopo quello infertogli dalla condanna comminatagli a seguito della divulgazione delle presunte lettere di Alcide De Gasperi, nelle quali quest’ultimo, in qualità di rappresentante della resistenza “bianca”, avrebbe chiesto agli alleati il bombardamento della periferia di Roma, dell’acquedotto e di altri obiettivi strategici. La libertà costa cara. Lo insegna la vicenda di Guareschi, “l’unico giornalista italiano — ha ricordato Bandini — ad essere andato in galera per diffamazione a mezzo stampa”.

Cos’è la libertà? “Per rispondere — ha affermato Giorgio Vittadini — bisogna andare a fondo di se stessi”. Un processo interiore che Guareschi ha affrontato con la non violenza, con la dignità, ma anche con la forza che gli faceva dire “non muoio neanche se mi ammazzano”. Socrate, Gandhi e Mandela: sono questi gli uomini della Storia che Vittadini ha citato per ricordare di che pasta fosse fatto Guareschi. L’autore rispose alle accuse mossegli con il carcere, fornendo, paradossalmente, un esempio di libertà, “facendo — ha chiosato il presidente della Fondazione per la Sussidiarietà — della propria vita una testimonianza”.