LIPSIA — Il dibattito sul “genocidio” — termine richiesto dall’Armenia e rifiutato dalla Turchia — del popolo armeno e così di tantissimi cristiani, non perde mai di attualità. Il 24 aprile ricorrerà il centenario del suo inizio (1915-1918). Sono già stato in Armenia due volte e il 28 aprile ci ritornerò con sei ragazzi della nostra scuola come coordinatore del gemellaggio con una scuola di Yerevan, capitale dell’Armenia, voluto dal ministero della Cultura della Sassonia-Anhalt, che a sua volta ha un gemellaggio (a livello del Land) con la repubblica armena.
Qualche tempo fa il sito del telegiornale tedesco Tagesschau ha proposto un servizio su un autore tedesco, Jürgen Gottschlich, che ritiene che gli alleati tedeschi di allora — i due regni, quello osmanico e quello tedesco, erano per l’appunto alleati — avevano saputo molto sui piani di sterminio della popolazione armena, ma non intervennero neppure quando a Berlino divenne del tutto chiaro che non si trattava solo di piani, ma di una loro realizzazione, nei termini di un massacro e di una deportazione in grande stile. Il risultato è noto a tutti: un milione e mezzo di morti.
Nel suo blog, il corrispondente della Berliner Zeitung lo scorso 30 marzo ha dato la notizia che papa Francesco, per intervento della Turchia, avrebbe rinunciato ad un viaggio a Yerevan previsto per il 24 di aprile. Al suo posto, ha detto il giornale turco Vatan, verrà celebrata in Vaticano una santa messa in rito armeno. Già come arcivescovo di Buenos Aires Jorge Mario Bergoglio, dice ancora il blog sopra citato, parlò del massacro degli armeni come di un genocidio. Nel 2013 avrebbe ripetuto questa sua affermazione in Vaticano come papa, facendo arrabbiare i turchi, che hanno definito l’espressione papale “del tutto inaccettabile”, mentre il giornale turco Hürrijet riportava l’affermazione del vescovo ortodosso armeno Sebuh Tschuldijan, che avrebbe definito il massacro una “verità storica”. Comunque questi fatti e commenti non devono essere sovrainterpretati, visto che il 28-30 novembre 2014 papa Francesco ha visitato il popolo turco riscuotendo grande successo e simpati, e incontrando anche il presidente Recep Tayyip Erdogan.
A riaccendere l’attenzione sul problema è stato senza dubbio il discorso di Francesco al sinodo patriarcale della Chiesa armeno-cattolica, ricevuto in udienza giovedì scorso, 9 aprile. In quella occasione il papa ha usato parole teologicamente drastiche come “dramma”, “tenebre del mysterium iniquitatis”, ma non ha usato la parola “genocidio”. Non per paura, ma semplicemente perché intuisce il grande bisogno degli armeni di non sentirsi solo un popolo di sconfitti, ma un popolo con una speranza — una speranza difficile da articolare, date le condizioni di povertà del paese, ma non per questo meno necessaria.
Le seguenti parole del papa: “Invocheremo la Divina Misericordia perché ci aiuti tutti, nell’amore per la verità e la giustizia, a risanare ogni ferita e ad affrettare gesti concreti di riconciliazione e di pace tra le Nazioni che ancora non riescono a giungere ad un ragionevole consenso sulla lettura di tali tristi vicende”, sembrano essere l’unica strada possibile. In Armenia questo molte persone lo sanno e si raccontano episodi della storia di famiglia in cui turchi, rischiando la propria vita, hanno protetto alcuni armeni.
Dal discorso del pontefice vorrei ancora citare il seguente passaggio: “Le pagine sofferte della storia del vostro popolo continuano, in certo senso, la passione di Gesù, ma in ciascuna di esse è posto il germoglio della sua Resurrezione. Non venga meno in voi Pastori l’impegno di educare i fedeli laici a saper leggere la realtà con occhi nuovi, per giungere a dire ogni giorno: il mio popolo non è soltanto quello dei sofferenti per Cristo, ma soprattutto dei risorti in Lui. Per questo è importante fare memoria del passato, ma per attingere da esso linfa nuova per alimentare il presente con l’annuncio gioioso del Vangelo e con la testimonianza della carità. Vi incoraggio a sostenere il cammino di formazione permanente dei sacerdoti e delle persone consacrate. Essi sono i vostri primi collaboratori: la comunione tra loro e voi sarà rafforzata dall’esemplare fraternità che essi potranno scorgere in seno al Sinodo e col Patriarca”.
Qui il pontefice coglie nel segno. Causare uno scontro politico con la Turchia non serve a nulla. Le parole usate nel discorso sono teologicamente inequivocabili e corrispondono alla mia impressione personale: il popolo armeno non è soltanto quello dei sofferenti per Cristo, ma soprattutto dei risorti in Lui. Questa risurrezione l’ho vista nei gli occhi e nelle opere concrete di molti ragazzi della scuola con cui abbiamo il gemellaggio; ma ho anche visto, in modo particolare negli adulti, una tristezza e una desolazione che hanno motivi molto chiari ma che non potranno mai essere feconde.
Fecondo è piuttosto il dialogo a cui invita alla fine del discorso papa Francesco: “Alla sua intercessione [di Gregorio di Narek, monaco, teologo, poeta e filosofo del X secolo che oggi viene riconosciuto come dottore della Chiesa], affido specialmente il dialogo ecumenico tra la Chiesa Armeno-Cattolica e la Chiesa Armeno-Apostolica, memori del fatto che cento anni fa come oggi, il martirio e la persecuzione hanno già realizzato “l’ecumenismo del sangue”. Ancora una chiaro termine teologico per dire che anche se il papa non si vuole buttare nella mischia dell’indagine sulle responsabilità storiche, sa bene che non solo per la “città martire” Aleppo, ma per tutto il popolo armeno abbiamo a che fare con un chiaro e terribile martirio. Ma il martirio stesso per i cristiani è sempre motivo di un’ultima speranza: attraverso di esso “surrexit Dominus vere“.