Nell’imminenza del settantesimo anniversario della liberazione dal nazi-fascismo il 25 aprile prossimo, festa che da sempre anziché unire il popolo italiano, lo divide tra coloro che hanno sempre avocato a sé quest’importante ricorrenza, carica del sentimento di rinascita civile e sociale, in maniera pretestuosa, egoistica e arrogante, e coloro che forzatamente ne sono esclusi in quanto ritenuti estranei e persino ostili a tali valori; un’altra importante ricorrenza riguarda un evento di portata storica rilevante e ne siamo divenuti consapevoli in questi giorni.



Il 24 aprile ricorre il centenario di quello che per il popolo armeno è il Medz Yeghern, il “Grande Male”, il genocidio che venne perpetrato ai loro danni dal 1915 al 1918 in coincidenza della discesa in campo nella prima guerra mondiale dell’Impero Ottomano guidato dai Triumviri Mehemet Talaat, Ismail Enver e Ahmed Djemal, esponenti di spicco del partito Ittihad ve Terakki (Unione e Progresso) nato dall’emergere di una nuova classe politica in seno al movimento dei Giovani Turchi.



Il termine “genocidio” all’epoca in cui accaddero i fatti era sconosciuto, infatti fu coniato per la prima volta dal giurista polacco di origini ebraiche Raphael Lemkin nel suo libro Axis Rule in Occupied Europe (“Il Governo dell’Asse nell’Europa occupata”) pubblicato nel 1944 negli Stati Uniti, e proprio le vicende che interessarono il popolo armeno fornirono lo stimolo al lavoro giuridico di Lemkin, in quanto “atterrito dalla frequenza del male, dalle grandi perdite in vita e cultura, … e soprattutto per l’impunità freddamente accordata al colpevole”.



Lemkin lo definì in questo modo: “Per genocidio intendiamo la distruzione di una nazione o di un gruppo etnico… In senso generale, genocidio non significa necessariamente la distruzione immediata di una nazione, se non quando esso è realizzato mediante lo sterminio di tutti i membri di una nazione. Esso intende piuttosto designare un piano coordinato di differenti azioni miranti a distruggere i fondamenti essenziali della vita dei gruppi nazionali, per annientare questi gruppi stessi. Obiettivi di un piano siffatto sarebbero la disintegrazione delle istituzioni politiche e sociali, della cultura, della lingua, dei sentimenti nazionali, della religione e della vita economica dei gruppi nazionali, e la distruzione della sicurezza personale, della libertà, della salute, della dignità e persino delle vite individuali che appartengono a tali gruppi. Il genocidio è diretto contro il gruppo nazionale in quanto entità, e le azioni che esso provoca sono condotte contro individui, non a causa delle loro qualità individuali, ma in quanto membri del gruppo nazionale”.

Per capire a pieno il significato del termine genocidio, bisogna tenere in debito conto l’intenzione dell’aggressore, infatti diversamente da altre esecrabili e gravissime forme di sterminio, nel genocidio il massacro è un fine e non un mezzo, la logica sottesa è che il nemico viene demonizzato e aggredito per quello che è, stigmatizzandolo come “altro da sé” su base ideologica. 

Il lavoro di Lemkin troverà compiutezza con la Risoluzione n. 96 dell’11 dicembre 1946 da parte dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite ma, siccome all’Urss non piaceva il riferimento a “gruppi politici”, si pervenne a una enunciazione di compromesso con l’adozione della “Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio” del 9 dicembre 1948, in vigore dal 12 gennaio 1951.

Ciò premesso per inquadrare storicamente e giuridicamente il reato del quale stanno per macchiarsi tutti coloro, élite politica e a cascata tutti gli esecutori, che hanno partecipato a ideare e realizzare il genocidio del popolo armeno.

L’Armenia, chiamata anche Hayastan, regione in cui tracce di vita neolitica sono testimoniate da documenti storici già verso il 3000 a.C., da sempre territorio di fondamentale importanza per il controllo delle vie di comunicazione tra Oriente e Occidente, nel corso dei secoli è stata sottoposta al controllo di grandi imperi e importanti civiltà, dai Persiani ai Greci, dai Romani agli Arabi, ma nonostante ciò è riuscita a sopravvivere sia come popolo che come cultura. I passaggi forse più importanti per l’identità del popolo armeno furono due. Il primo riguarda la conversione al cristianesimo all’inizio del IV sec. d.C., potendo così vantare di essere la prima nazione cristiana dell’intera storia umana; ciò avvenne sotto il regno di Tiridate III per opera di San Gregorio Illuminatore. Mentre il secondo riguarda l’elaborazione dell’alfabeto armeno nel 405 d.C. per opera di Mesrop Mashtots.

Dal XVI secolo l’Armenia storica venne divisa in due, la parte occidentale entrò a far parte dell’Impero Ottomano, mentre la parte orientale rimase sotto l’egida del dominio persiano.

La storiografia mondiale riconosce ormai senza dubbi che i massacri che interessarono il popolo armeno si svolsero sempre in Turchia, ma in due momenti storici differenti: il primo tra il 1894 e il 1896, condotto dal sultano ottomano Abdul-Hamid II, mentre il secondo, il più tragico, tra il 1915 e il 1918, con la deportazione ed eliminazione di armeni compiuta dal governo dei Giovani Turchi. A questi eventi va aggiunto un ulteriore triste prologo dello sterminio armeno, quello tra il 1920 e il 1922 ad opera di Mustafa Kemal, detto Ataturk.

Nel proposito di “occidentalizzare” l’Impero Ottomano da parte dei Giovani Turchi aveva riposto le sue speranze anche la comunità armena, tuttavia questa speranza risulterà vana, anzi di più ancora, beffarda, se si pensa che già in un Congresso segreto dei Giovani Turchi tenutosi a Salonicco nel 1911 venne deciso di sopprimere totalmente gli armeni residenti in Turchia.

E quando l’Impero Ottomano partecipò alla prima guerra mondiale, il 29 ottobre 1914, schierandosi al fianco degli imperi centrali, la comunità armena, all’oscuro di quanto tramavano nei suoi confronti i Giovani Turchi, fece arruolare i suoi componenti nell’esercito dell’Impero, in modo che assolvessero i loro doveri di fedeli sudditi. 

 

Ma quando sul confine tra Turchia e Russia, la Terza Armata turca venne sbaragliata nel gennaio del 1915 a Sarikamish dalle forze armate russe, ciò fornì il pretesto per mettere in moto il progetto genocida.

Per perpetrare il loro disegno criminale i turchi avevano scarcerato i criminali recidivi più duri e pericolosi denominati tchété, ossia irregolari, in quanto facenti parte di squadre adibite ai lavori più sporchi, e trasformati in agenti del governo, membri del Teskilati Mahsusa, l’Organizzazione Speciale incaricata dei massacri.

L’orrore iniziò la notte del 24 aprile 1915 a Costantinopoli, dove nel corso di una gigantesca retata centinaia di esponenti dell’élite armena vennero arrestati e incarcerati; alcuni furono immediatamente uccisi, altri vennero avviati verso l’Anatolia dove furono massacrati. Lo sterminio proseguì con la soppressione della comunità armena di Costantinopoli: tra il 24 e il 25 aprile 1915 migliaia di giovani armeni della provincia, venuti a Costantinopoli per lavorare come giornalieri, furono arrestati, deportati verso l’Anatolia e infine assassinati. Nel giro di poche settimane decine di migliaia di armeni vennero imprigionati e sottoposti a spaventose e documentate torture, in particolare contro i sacerdoti ai quali vennero strappati gli occhi, le unghie e i denti con punteruoli roventi e tenaglie.

Quando l’esercito turco occupava un villaggio armeno, ordinava agli abitanti di abbandonare, così com’erano, le case e di radunarsi fuori. La popolazione, terrorizzata, impotente, accerchiata da soldati armati, era obbligata a lasciare il villaggio e a cominciare il suo lungo e infernale viaggio forzato verso la morte. Mentre, affamati e bastonati, si trascinavano sulle vie dell’Anatolia, venivano aggrediti dalle bande di tchété che davano man forte all’esercito, completando il saccheggio e lasciando le loro vittime praticamente denudate.

Si hanno testimonianze che nella regione siriana di Deir el-Zor vennero creati campi di raccolta e di sterminio, dove in recinti rigurgitanti di vecchi, donne e bambini, scoppiarono terribili epidemie di tifo e vaiolo; e proprio il governatore di questa regione, Salih Zeki, ogni mattina era solito cavalcare nei campi tra i profughi, sollevare un bambino, farlo roteare in aria e scagliarlo contro le rocce. E ancora, sempre lo stesso, rinchiuse cinquecento armeni all’interno di una stretta palizzata, costruita su di una piana desertica, e li fece morire di fame e di sete.

Testimonianze di questi crimini si hanno anche grazie al coraggio nel denunciare e non tacere da parte di diversi diplomatici che si attivarono per salvare la popolazione armena, tra gli altri l’ambasciatore tedesco conte von Wolff-Metternich, il console italiano Giacomo Gorrini e l’ambasciatore americano Henry Morgenthau.

Secondo lo scrittore e storico tedesco Johannes Lepsius, autore del libro Deutschland und Armenien 1914-1918, il numero totale dell’intera tragedia armena oscilla tra un milione 200mila e un milione 250mila vittime; in pratica i due terzi della popolazione armena residente nell’Impero Ottomano fu soppressa e regioni per millenni abitate da armeni non videro più in futuro nemmeno uno di loro. 

 

Se mai qualcuno leggendo questo articolo sia arrivato al termine chiedendosi se abbia senso a cento anni di distanza ricordare e riflettere su questi tragici fatti, ricordiamo le parole di un altro esemplare di brutalità, Adolf Hitler, il quale, in un discorso del 22 agosto 1939 nell’imminenza dell’invasione della Polonia, così spronava gli ufficiali dello Stato Maggiore a compiere gli orrori poi perpetrati dai soldati tedeschi nella seconda guerra mondiale: “Andate, uccidete senza pietà. Chi è che ricorda oggi l’annientamento del popolo armeno?”

Conoscenza, ricordo e riflessione sono l’antidoto alla reiterazione delle brutalità.

 

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