Uno scrittore che vive della bellezza e scrive dei suoi incanti, in mezzo alle ferite della storia. Si potrebbe definire così José Jiménez Lozano, poeta, narratore e critico d’arte che spicca nell’attuale panorama della letteratura spagnola, e comincia a esser conosciuto anche in Italia. Il suo esordio risale al 1971, con Historia de un otoño; a questo romanzo ne sono seguiti altri ventitré. Lozano è anche un maestro della narrativa breve: all’attivo ha undici raccolte di racconti, la prima apparsa nel 1976 (El santo de mayo), l’ultima (Abrám y su gente) nel 2014. Otto i volumi di poesia; a cui si aggiungono sei quaderni di appunti o diari, oltre a numerosi saggi. Nel 2002 ha ottenuto il Premio Cervantes, il Nobel della letteratura spagnola. La sua sigla: parole trasparenti per raccontare le storie che gli vengono date in dono; uno sguardo sul mondo come fosse appena sbocciato. 



È apparso di recente in Italia un suo libro di “meditazioni”, I quaderni di Rembrandt (Venezia, Amos Edizioni, 2014) nell’eccellente traduzione di Graziella Fantini. Qui vediamo diventare scrittura le giornate dell’autore; tra solitudini e conversazioni. Rimandano, le conversazioni, a incontri, anche a distanza, con uomini e donne d’ogni tempo, impegnati a denunciare le falsità del nostro mondo e aperti a spiragli di speranza. Quanto alle solitudini, ci fanno partecipi dello sguardo dello scrittore che si posa, solitario e consapevole, sulla natura, sul cosmo, e sull’armonioso succedersi delle stagioni. Questi ritratti sono scritti con un solo proposito: offrire al lettore alcuni squarci della “bellezza come compagna necessaria del vivere”. La bellezza, secondo Lozano, è la sola risorsa capace di riscattare la “spontaneità” di ciò che è umano, celata molte volte dietro le più svariate maschere del pensiero dominante, sotto le macerie delle ideologie e dietro l’apatia di una società schiava della moda e del politically correct



La lettura di queste pagine sollecita l’umanità del lettore a liberarsi dal suo intorpidimento e a sorprendere il “sussurro del divino”; in questo modo, rimette in gioco la domanda e la speranza. “Da dove l’uomo, altrimenti, farebbe scaturire la sua dignità, se non supplicasse o non potesse supplicare i numi?” 

Alcuni passi fanno intuire subito al lettore italiano con che razza di scrittore ha a che fare. In primo luogo, la conversazione con Romano Guardini: un invito a considerare quello che noi, uomini del ventunesimo secolo, abbiamo perduto vivendo immersi nella leggerezza di un tempo che trova in sé la sua fine. Questo “colloquio” è frutto della lettura dell’opera di Guardini Il potere. Quali effetti colpiscono le cose più preziose della vita quando sparisce la tensione religiosa, e dunque quando diminuisce il valore religioso dell’esistenza? 



Osservava Guardini: “sia l’uomo in generale, sia i singoli momenti essenziali della sua vita, come ad esempio la condizione inerme del fanciullo, il particolare carattere della donna, la debolezza e insieme la pienezza d’esperienza  della vecchiaia, perdono il loro accento metafisico”; in una parola, “perdono il loro mistero”, e divengono “prodotti che hanno determinati valori economici, estetici, igienici”. Questa perdita rende la vita umana vulnerabile al potere. Si innesta qui Lozano: “Ormai noi uomini abbiamo affidato ogni cosa — il nostro corpo e la nostra anima, la nostra vita e la nostra morte — ai poteri di questo mondo, e questa resa sarà totale se non ci sarà più neanche il sussurro del divino”. Consapevoli di essere dei viaggiatori in questo mondo, poiché appartenenti a un altro mondo d’individui ineffabili, gli uomini “non permettevano a nessuno di trattarli come delle bestie”. Ma se scompare la sfera del trascendente, “possiamo contare solo sul potere di questo mondo, che è un altro dio, ma che ci esonera da responsabilità e da sforzi, e ci dispensa prosperità”. Purtroppo, “accettiamo questa schiavitù dorata, colmi di gioia”. Con lucidità, Lozano denuncia la leggerezza con la quale, all’improvviso, noi uomini del ventunesimo secolo crediamo di poter vivere. L’oblio del mistero, dei barlumi di mistero, celebra un’esistenza piattamente facile. Ma con questa rinuncia, tutto si tramuta in “resa della nostra umanità”.

Un altro culmine del libro è il ritratto del mendicante, in cui Lozano ritrova uno dei tipi privilegiati dalla sua scrittura. Il mendicante si colloca tra le creature che passano nel mondo in punta di piedi, portando il peso del loro dolore: le lavandaie, i garzoni insignificanti, gli sciocchi della corte, le domestiche, gli scemi del villaggio. A loro, Lozano ha dedicato le sue migliori pagine. E davvero notevoli sono quelle per questo mendicante, scoperto in una remota esperienza di bambino: “Quando ero bambino, un mendicante era ancora qualcuno (…); c’era il riconoscimento di un uomo caduto in disgrazia e, come se questa potesse ungerlo, meritorio di un particolare rispetto”. Lozano cita Mario Luzi, attento agli esseri umili, e a personaggi letterari come Eumeo e Euriclea, le due figure dell’Odissea di Omero che si muovono a pietà di chi non ha nulla. “Per quanto umile sia il suo stato — dice Luzi — Eumeo partecipa della saggezza concessa agli uomini probi e giusti”. Non meno impressionante la pietà della vecchia e fedele nutrice Euriclea; questa pietà “si manifesta nel più toccante segno di devozione e rispetto per i mendichi (…) cioè la lavanda dei piedi”. 

Anche la mendicità come posizione umana può rivelarsi guida dello scrittore. Non per nulla, Rimbaud diceva che il poeta bambino, proprio perché conserva uno sguardo puro, “possiede poteri da vendere per fare diventare un mendicante, e un mendicante idiota, un re, un genio o un profeta”. 

Il bambino può guardare il mendicante perché “capisce la sua condizione di ‘sventurato’ o ‘disgraziato’, nella forte accezione di Simone Weil”. E proprio da bambino, Lozano imparò che il mendicante può provocare un incontro decisivo, poiché la sua povertà rivela qualcosa che può stare all’altezza della filosofia più eccelsa: “l’incontro con un mendicante” può essere “incontro con Platone”. Ma lo sguardo del bambino, e proprio queste pagine lo testimoniano, può essere rinnovato a ogni età, anche a ottant’anni.

Il terzo ritratto che vogliamo evidenziare appartiene alle solitudini, e descrive una nevicata dell’inizio del 2006. Insolita nevicata, nella sua abbondanza, nel suo spessore di venti centimetri (“da queste parti è una cosa assai rara”). Proprio per questo, “è tanta la gioia che infonde”. S’introduce furtivamente un passero, dentro la casa al riparo dalla neve e del freddo; il che fa pensare alla brevità e gratuità della vita. Lozano rievoca l’atmosfera di silenzio del quadro di Bruegel Cacciatori nella neve, “con quegli inquieti segugi rossi e tutto il silenzio del quadro che è proprio quello di un giorno di neve”. Il mosaico si completa con la passeggiata dello scrittore sul manto di neve: “Durante la passeggiata mattutina per la montagna nevicata, non c’è nemmeno un’orma, tutto è come un gran lenzuolo di un bianco reso azzurrognolo da un tenue indaco. Il sole è ancora basso e acceca lo sguardo, ma vi è un silenzio come se non fosse stato ancora creato il mondo”. La nevicata è un invito a portare lo sguardo a passeggio in una realtà sorpresa in un suo nuovo risveglio.

Saggi e candidi occhi sono quelli di Lozano nei Quaderni. Occhi su un mondo che si rinnova, che riappare come fosse appena inaugurato. Qualcuno, infatti, lo restituisce ogni giorno nel suo biancore, nonostante i fiumi di sangue della storia. E ha ragione J.A. González Sainz, nelle sue postille in calce al volume: “Tante lezioni e silenziose parole d’ordine possono venir fuori dalla lettura dei quaderni di Jiménez Lozano. Una per esempio: mantenersi  leali ai fatti e alle cose, mantenere gli occhi puliti e tranquilli per scrutare l’impostura e per scoprire la bellezza e la bontà intorno a noi”. 

(trad. di Graziella Fantini)