Lo stato islamico parte dell’occidente. La terza generazione del jihadismo. Il timore di un tarlo che consumi dall’interno la monarchia saudita. Il fascino dell’Is un po’ come è stato per il comunismo o con il movimento del ’68 in Europa. Sono le tesi di Gilles Kepel, professore universitario di scienze politiche a Science Po di Parigi, membro senior dell’Institut Universitaire de France e della London School of Economics dal 2010, tra i massimi esperti di islam e mondo arabo.



Isis si è appropriato di tutte le novità e le tecnologie comunicative di ultima generazione. Pensiamo ad esempio all’uso professionale dei social network, dei video, ecc. Come interpretare quest’abile ripresa del modello occidentale?
Perché, io credo, Isis fa parte dell’Occidente. Ci sono migliaia di jihadisti occidentali che sono andati a combattere il jihad in Siria o in Iraq, ingeneri francesi, italiani, inglesi, olandesi, o di origine nordafricana, immigrati di seconda o terza generazione, o convertiti, ora membri a tutti gli effetti di Daesh, acronimo arabo di Isis con cui preferisco chiamarlo. Ma questa non è una sorpresa. Al di là di Isis in sé — perché Isis c’è oggi, ma tra un anno o due potrebbe non esserci più — il punto è che siamo nella terza generazione del jihadismo. Questa è la cosa più importante da capire. 



Può ripercorrere le varie fasi dello sviluppo del jihadismo?
La prima generazione era quella del jihad afghano degli anni 80, finanziato dai petrodollari dell’Arabia Saudita e aiutato dagli Stati Uniti allo scopo di far cadere l’Unione Sovietica. Questo jihad si è poi sviluppato in Algeria, in Egitto, in Bosnia, seguendo lo stesso modello, ma è stato un fallimento totale. Il mezzo di comunicazione di questa generazione era il fax: se ricordate verso la fine degli anni 90 Abu Mus’ab al-Sur, siro-spagnolo che giocherà un ruolo chiave nell’evoluzione del jihadismo, viveva nel Londonistan come si usava chiamare Londra nel periodo in cui accoglieva esponenti dell’islamismo da tutto il mondo. Ogni venerdì al-Suri aveva l’abitudine di faxare le notizie sul jihad algerino, inviando una sorta di bollettino settimanale. Ma come il fax è caduto in disuso, così si è esaurita anche questa generazione, sostituita da una seconda generazione: quella di al-Qaida, Bin Laden e al Zawahiri. 



Per loro?
Per loro il mezzo di comunicazione era la tv satellitare. Non si può concepire al-Qaida senza al-Jazeera, sono cresciuti insieme, secondo un medesimo sviluppo. Si era nel frattempo diffuso anche l’uso di internet, ma non la versione interattiva 2.0. Si trattava dell’internet monodirezionale. Il loro obiettivo era già l’Occidente, ma l’Occidente visto da lontano: se ricordiamo l’attacco dell’11 settembre 2001 alle Torri Gemelle è stato compiuto non da musulmani americani, ma da 15 terroristi sauditi, più alcuni dagli Emirati Arabi e un egiziano. Era un attacco di tipo top-down, dall’alto verso il basso, e il mezzo televisivo è stato la speciale cassa di risonanza di questo attacco “spettacolare”. 

La narrativa era hollywoodiana, le Torri Gemelle che crollavano sono state uno straordinario “spettacolo” da trasmettere nei canali satellitari per reclutare nuove forze alla causa jihadista. Ma anche questa seconda fase del jihadismo è fallita, perché le masse musulmane non si sono unite per combattere sotto la bandiera verde del jihad del profeta, come diceva al Zawahiri nel suo famoso libretto apparso su internet Cavalieri sotto la bandiera del Profeta. E poi la nuova svolta.

La terza generazione dunque. Com’è nata?
Abu Mus’ab al-Suri nel gennaio 2005 pubblica in internet il suo libro di oltre mille pagine che contiene un appello alla resistenza islamica globale, ma con una prospettiva totalmente nuova: criticava l’11 settembre in quanto espressione dell’hybris di Bin Laden, spiegava che c’era bisogno di cambiare il modello top-down, di invertirlo dal basso verso l’alto. Ciò implicava utilizzare jihadisti a bassa intensità, reclutati negli ambienti musulmani europei, tra i musulmani mal integrati in Francia, Italia e altri Paesi. Per questi nuovi terroristi il bersaglio erano persone nelle loro vicinanze, tre categorie in particolare: gli ebrei, gli intellettuali laici anti-islamici e i musulmani traditori, apostati. In questo nuovo corso l’opzione restava attaccare l’Occidente, ma non più con un attacco diretto all’America, troppo forte, ma all’Europa, che appariva più debole, più vulnerabile.

L’attacco a Charlie Hebdo ne sarebbe un esempio?
Certo. Le persone ammazzate in quello e nei precedenti attacchi in Francia rientrano proprio nelle categorie indicate da al-Suri. Che poi invitava a utilizzare i social media, per una diffusione appunto dal basso. Il modello della seconda generazione era la tv tipo al-Jazeera (controllata dai petrodollari del Qatar), mentre per la terza generazione il modello è dal basso. Vorrei notare un’interessante coincidenza, oserei dire sorprendente: l’appello di al-Suri è stato postato nel gennaio 2005 e le condizioni per la realizzazione di questo suo appello si sono materializzate nel mese successivo: il 14 febbraio 2005, giorno di San Valentino, viene lanciato YouTube, condizione per realizzare la terza fase del jihadismo. YouTube, Twitter, Facebook: sono tutti mezzi che favoriscono la diffusione pervasiva dei messaggi jihadisti. 

E poi sono scoppiate le rivolte arabe…
Proprio così: l’evoluzione delle rivoluzioni arabe e il caos che ne è seguito hanno ulteriormente creato il contesto ideale per la terza fase del jihadismo. La prossimità all’Europa del campo di battaglia del jihad non è secondaria. Con un volo low cost, con 70, 80 euro circa, è possibile volare da Milano o da Parigi a Istanbul e da lì raggiungere in fretta la Siria. Si consideri, poi, che tutti quei giovani europei che partono per il Medio Oriente sono attrezzati di GoPro, la fotocamera leggera e di facile uso. La nuova generazione del jihadismo in Europa ha conosciuto l’attacco più spettacolare in quello del giovane di 23 anni Mohammed Merah, nel marzo 2012 a Tolosa e Montauban. 

Merah ha filmato le sue azioni e le avrebbe potute postare immediatamente sui social. Solo che era ancora parzialmente nella fase precedente, perché ha inviato le riprese ad al-Jazeera, che le ha bloccate. Non ha avuto l’idea di caricarle nelle piattaforme di condivisione online, cosa che Amedy Coulibaly, il terrorista dell’attacco al negozio kosher di Parigi dello scorso gennaio, ha invece fatto subito. 

Le agenzie internazionali calcolano in 6mila i foreign fighters partiti dall’Europa per andare in guerra in Siria e Iraq. Che cosa scatta in questi ragazzi e ragazze spesso giovanissimi che li spinge a lasciare tutto e partire, mentre vanno ancora a scuola e sembrano integrati? Quanto c’è di “religioso” in questa scelta? 
C’è un concorso di fattori, perché c’è un tipo di religiosità islamica che viene dal salafismo, una cosa molto importante, capace di controllare credo la gran parte della narrativa pubblica dell’islam sunnita. All’inizio il salafismo moderno era una creazione saudita per controllare il linguaggio dell’islam sunnita, un modo per il regime di Riyadh di espandersi e affrontare i nemici. Ma il salafismo, per così dire, a un certo punto si è rivolto contro i suoi “genitori”: al-Qaida è un esempio molto interessante perché Osama Bin Laden era parte dell’establishment saudita, era partito per il jihad della prima fase in Afghanistan con la benedizione della famiglia reale saudita. Ma in seguito ha creato al-Qaida nella Penisola Arabica, che ha commesso tanti attentati in Arabia tra il 2003 e il 2006. Con Daesh si ripete più o meno la stessa storia: è stato se non creato, almeno aiutato dall’ambiente saudita salafita rigorista, perché per Riyadh — e per altri — era un modo molto efficiente per combattere l’influenza sciita nel Medio Oriente: distruggere Damasco e Bashar al Assad era il modo più sicuro per indebolire Teheran. Tuttavia anche Daesh è andato per la sua strada e ora è in pericolo anche l’Arabia Saudita, perché la società, almeno una sua parte, è già permeabile alla sua influenza. Si è visto con la successione del re: Salman e i suoi consiglieri sono molto più ostili a Daesh di quanto lo fosse il re Abdallah, alcuni consiglieri di re Abdallah, quelli che erano pro-Daesh, sono stati messi da parte e ora credo che i sauditi abbiano paura. Questo aspetto, che è importante nella tradizione salafita tanto pervasiva, lo è anche nell’islam europeo. 

Ma perché il salafismo alla fine risulta così attraente per giovani europei?
Credo sia per il fascino del radicale e del “contro” che il salafismo esercita. Un po’ come il comunismo con la sua proposta di un “avvenire radioso”, o il movimento del ’68, quando i giovani inseguivano modelli alternativi. Si tratta del fascino di una narrativa totalmente opposta a quella prevalente nella società. Ora il comunismo e i moti del ’68 sono finiti, resta il richiamo dell’islam radicale, come documentano le conversioni che procedono a ritmi sostenuti. 

Non abbiamo mai assistito a questo fenomeno: dei 6mila europei circa partiti per la Siria e l’Iraq, tra un quarto e un terzo sono giovani convertiti, non ragazzi usciti dalle borgate di periferia o dagli strati poveri della società. C’è proprio una domanda di senso, la ricerca di un contro-modello. Si tratta di un soggetto nuovo, ma il poco che sappiamo della situazione di questi ragazzi, anche giovanissimi, è che nella maggioranza dei casi l’ambiente familiare era in crisi, il padre assente per esempio. Sono in un certo modo il risultato della società contemporanea, nella quale non ci sono più valori di riferimento fissi. La globalizzazione può essere meravigliosa per chi ha la possibilità di viaggiare, per chi fa parte della classe medio-alta. Ma tra quelli che sono “dimenticati” in basso, si colgono due tendenze: la crescita da un lato di gruppi islamisti contro la società e dall’altro di movimenti di estrema destra, come ad esempio in Francia il Front National. 

Quindi una mancanza di senso, di valori forti di riferimento. Da alcune statistiche emerge che una buona percentuale delle famiglie di chi parte per il jihad si dichiara atea. Quindi il religioso sembrerebbe “espulso”…
Sì, sono atee molte famiglie. Come ci sono anche molti giovani jihadisti convertiti dal cristianesimo e dall’ebraismo, cosa stranissima. Isis fa parte del vocabolario di questa terza generazione di jihadismo, ma credo che forse domani o dopo vedremo qualcosa di ancora differente. 


L’articolo è un’anticipazione della newsletter della Fondazione Internazionale Oasis che viene diffusa oggi. www.oasiscenter.eu/it