Cristiano, partigiano, italiano. Aldo Gastaldi (1921-1945), nome di battaglia “Bisagno”, è stato un eroe della Resistenza, ma di quella meno nota al grande pubblico perché difficile da usare politicamente alla bisogna. A lui ha dedicato un film-documentario il regista (ligure come Gastaldi) Marco Gandolfo. “Un appello a riflettere su come e perché si spende la vita, questo ci consegna Bisagno ancora oggi”. Il documentario sarà presentato in anteprima nazionale mercoledì 29 aprile all’Università Cattolica di Milano.



Gandolfo, come nasce l’idea di questo docufilm su Aldo Gastaldi?
All’origine di tutto c’è stato un incontro personale. Sono ligure, ho studiato a Genova, lì ho fatto l’università, il nipote di Bisagno, che si chiama come lo zio, Aldo Gastaldi, è stato mio compagno di studi. E’ stato preparando gli esami con lui che ho scoperto la figura di questo partigiano, diverso dagli altri innanzitutto per la sua umanità. Anni dopo, Aldo mi propose di fare un documentario. Mi parve subito una bella opportunità. 



E nel 2010 si è messo al lavoro. Da dove ha cominciato?
Per prima cosa decisi di mettermi in ascolto dei testimoni, di coloro che avevano incontrato Aldo Gastaldi, tra i quali anche molti combattenti. Tutte persone che custodivano in casa la sua foto, e che per un motivo o per l’altro lo ricordavano commosse. Non avevo e non volevo attenermi ad un’idea preconcetta. L’unica fonte non partigiana che compare nel documentario è la poetessa Elena Bono. Cominciai da lei.

La Bono nel settembre del ’43 aveva 22 anni, proprio come Bisagno.
Fu un incontro di pochi attimi, la Bono era sfollata con la famiglia. Vide passare una motocicletta con due partigiani, che sì fermò e ripartì. Lei incrociò lo sguardo di Bisagno e rimase folgorata dai suoi occhi, lui che era già una leggenda della resistenza ligure. Ne fu così impressionata che scrisse più volte di Aldo Gastaldi nella sua opera. “Io ho scritto dei suoi occhi chiari — mi ha detto la Bono — in realtà Bisagno aveva occhi scuri, solo che erano così luminosi che mi sembrarono azzurri”.



Lei ha scelto di occuparsi di una leggenda della Resistenza ligure. E’ stato difficile gestire le fonti? 
Ho raccolto testimonianze dirette, intervistando una trentina di persone che sono tante per un lavoro di questo tipo. Poi ho usato il materiale raccolto dal fratello, che per buona parte fino ad oggi è rimasto privato. Infine ho attinto a materiale d’archivio, come quello depositato alla Società Economica di Chiavari consistente nelle testimonianze di due partigiani che erano con Bisagno e che hanno lasciato lì le loro memorie.

Qual è stata la Resistenza dell’uomo e del cristiano Aldo Gastaldi, alla luce di questo suo lungo lavoro di ricostruzione? 

Prima dell’8 settembre era a Chiavari come sottotenente del genio e già allora si distingueva per avere a cuore i suoi soldati. Poi, quando si trattò di scegliere, non ebbe esitazione di sorta e volle subito passare all’azione. Sempre in modo razionale però, mai mandando allo sbando gli uomini, che per lui venivano prima di tutto, perché il suo senso di responsabilità verso la patria cominciava dagli uomini e dalle famiglie che gli stavano accanto. Quando il giorno dell’armistizio seppe che stavano arrivando i tedeschi, a quelli del suo plotone fece nascondere le armi e fino all’ultimo tenne i gradi addosso, in modo da essere individuato subito come ultimo responsabile e pagare per primo. Il suo stile era questo, darsi per primo, essere d’esempio. Cominciò con 7-8 uomini, fu sempre contrario a fare arruolamenti in massa, “non voglio carne da cannone” diceva, ma uomini consapevoli, addestrati. La sua fama e quella della “Cichero” si diffusero subito… un commissario politico comunista, Giovanni Serbandini (“Bini”), uno dei primi con cui Bisagno entrò in contatto, racconta che fu stupito da quel giovane, preoccupato di non arrivare troppo tardi mentre tutti gli altri militari contattati per fare una resistenza si erano mostrati attendisti, temporeggiatori.

Poi però Aldo Gastaldi cominciò a diventare un personaggio scomodo. Come accadde?
Nel settembre del ’44, quando la Germania nazista entrò in palese difficoltà e si capì che anche in Italia Mussolini aveva i mesi contati, i partiti del Cln cominciarono a porsi il problema di come spartirsi il potere il giorno della liberazione, dividersi le forze, le operazioni, i successi e le sconfitte, gli stessi nomi dei partigiani. Questo a Bisagno non piaceva, e lui cominciò a non piacere ai comandi. Lo si vede bene nella corrispondenza di quel periodo tra il partigiano Marzo e i vertici locali del Partito comunista.

Cosa non andava giù a Gastaldi?
Fin dall’inizio della Resistenza si era opposto alla politicizzazione delle formazioni partigiane. Per lui non era quello il momento. Prima di dare il mio nome a un partito, diceva, devo non solo conoscere il suo programma e quello degli altri partiti, ma vederli anche all’opera.

Si arrivò anche allo scontro, è così?
Gradualmente, sì. Il Cln di Genova decise di dare il comando della VI zona operativa (l’entroterra di Genova fino all’Emilia) a uno sloveno, Anton Ukmar, nome di battaglia Miro, un rivoluzionario comunista di professione, funzionario del Comintern. Tutti gli altri membri del Comando di zona erano comunisti, l’unico a non esserlo era Gastaldi, al quale veniva dato il ruolo di vicecomandante. Ma Bisagno non si sentiva a suo agio come vicecomandante di zona, a quel ruolo preferiva il comando della divisione Cichero, un ruolo reale, che gli consentiva di essere vicino agli uomini, di partecipare alle azioni insieme a loro. 

E poi come andò? 

Provarono di togliergli il comando. Il 7 marzo ’45 a Fascia avviene una riunione in cui i membri del Comando militare unico della Liguria chiedono a Bisagno di andarsene nella IV zona, un modo per metterlo da parte. Bisagno non accetta e dice tutto ai suoi uomini, e due distaccamenti dei suoi accorrono e puntano le armi al petto dei rappresentanti del Comando. A quel punto è evidente che non possono liberarsi di Bisagno e si trova un compromesso, dividendo la Cichero in due. Bisagno avrebbe avuto i numeri per dire no, staccarsi e fare una divisione per conto suo, ma gli fu subito chiaro che se avesse rotto con il Comando militare unico della Liguria avrebbe messo a repentaglio i diritti acquisiti dai suoi uomini in tanti mesi di partigianato, una volta arrivati alla liberazione. Bisagno teneva così tanto ai suoi uomini che, dopo il 25 aprile, volle riaccompagnare personalmente  a casa alcuni ragazzi, ex alpini della Rsi che erano passati con i partigiani e che non avrebbero avuto vita facile se fossero stati accolti come ex fascisti. Morì sulla strada del ritorno, il 21 maggio 1945. 

In circostanze non del tutto chiare. Cosa può dirci in proposito?
Il documentario non è e non poteva essere un’inchiesta, però è un dato di fatto che i suoi uomini temevano che potesse succedergli qualcosa. Non voglio stare in cabina ma all’esterno, disse Bisagno all’autista del camion sul quale viaggiava. Quando questo sterzò bruscamente per evitare una colonna di prigionieri tedeschi che veniva in direzione opposta, Bisagno cadde e finì schiacciato dalle ruote del rimorchio. Che poi è anche la ricostruzione ufficiale fatta dai carabinieri. Ma le testimonianze dicono che quel giorno Bisagno era strano, turbato. Alcuni hanno anche ipotizzato un avvelenamento.

C’erano motivi per i quali poteva essere inviso anche dopo la liberazione?
Sì. Perché si era opposto ai regolamenti di conti, come quelli che c’erano stati a Genova e che in quei mesi avvenivano da moltissime parti nel nord Italia; e perché aveva chiesto agli americani di sciogliere la polizia partigiana. Voleva che i partigiani smobilitassero, consegnassero le armi e chiudessero un periodo che era una parentesi, non l’inizio di qualcos’altro.

Bisagno era cattolico, un uomo di fede profonda. Quali sono secondo lei i tratti umani che più documentano la sua personalità cristiana?
Non si è fatto mai piegare da alcuna logica di potere, di poltrone, di qualunque colore fossero, rosse o bianche. “Noi non abbiamo un partito, noi non lottiamo per avere un domani un careghin, vogliamo bene alle nostre case, vogliamo bene al nostro suolo”, sono parole sue. “Combatterò contro ogni ingiustizia anche se questo dovesse causarmi disgrazia o altro”. 

Per Bisagno la Resistenza non è appartenuta a nessuno, è stata solo — si fa per dire — una circostanza storica, esistenzialmente decisiva, in cui combattere la prima e più importante battaglia, quella che c’è nell’uomo tra il bene e il male, l’occasione per esercitare la virtù che ognuno è chiamato a operare su di sé. 

Che cosa le è più caro al termine di questo ultimo lavoro?
L’eredità più profonda di Aldo Gastaldi è un appello a riflettere sul perché si spende la vita, ammesso che lo si faccia per qualcosa. L’uomo può avere uno sguardo così sicuro perché è certo e sicuro della propria Guida. Io volevo solo che lo sguardo di Aldo, attraverso quello di persone che dopo 70 anni ancora si commuovono quando parlano di lui, potesse arrivare al pubblico. 

(Federico Ferraù)


Cristiano, partigiano, italiano. La Resistenza di Aldo Gastaldi “Bisagno”. Presentazione del film-documentario di Marco Gandolfo, Università Cattolica del S. Cuore, mercoledì 29 aprile 2015, Aula Pio XI, ore 15.