“Sono quasi tutti impresentabili i poeti, fanno delle vitacce; lasciamo stare le biografie e andiamo invece incontro ai loro cuori che per vie sofferte vanno a fondo, vanno alla sostanza” ha commentato Roberto Filippetti, studioso d’arte e letteratura ma soprattutto insegnante, la cui attività trova corrispondenza con la radice latina del verbo “insignare” (imprimere segni). La terza serata del Mese letterario, organizzata dalla Fondazione San Benedetto e dedicata a Montale, rimarrà sicuramente impressa nelle menti dei seicento studenti, fra universitari e liceali, che affollavano l’auditorium Balestrieri di Brescia giovedì 23 aprile.



Montale, il poeta del male di vivere, ma anche il poeta dello sguardo fissato sempre oltre, “più in là”, lasciando il passo, seppur velatamente, a una flebile speranza. “Un poeta che ha attraversato il nichilismo totale, la notte, cercando di oltrepassarla”. E’ questo il profilo di Montale fornito da Paola Paganuzzi, professoressa del locale Liceo Calini che, come Filippetti, nutre un amore incondizionato, a tratti viscerale, per il poeta ligure.



Un’umanità cupa, disperata, quella di Montale, che però lascia aperta una porta: “Varcare la soglia della speranza. Sì, ma quale?” domanda Filippetti, rivolgendosi alla platea, ritto sul palco, mentre scorrono le immagini di “Sogni”, film di Akira Kurosawa, seguite dalle pennellate di Van Gogh. La risposta è anche lì, in quei girasoli, nella loro “natura oggettivata” ma illuminata da un radioso panteismo che traspare fra le righe di Ossi di seppia: “Portami tu la pianta che conduce dove sorgono bionde trasparenze e vapora la vita quale essenza; portami il girasole impazzito di luce” scriveva Montale. La speranza, dicevamo. La speranza risiede sempre in un’attesa e anche Montale attende, come tutti, qualcosa: “Il mio genere è tutta un’attesa del miracolo”. In un mondo dove tutto è nulla, nella prospettiva vertiginosa del precipitare “con un terrore da ubriaco”, il miracolo risiede nel “sentir / noi pur domani tra i profumi e i venti/ un riaffluir di sogni. Un urger di folle/ di voci verso un esito; e nel sole/ che v’investe, riviere, /rifiorire!” (rivivere).



Tornare alla luce, uscire dalle tenebre di un’esistenza dolente, rivivere, per l’appunto; è a questo che anela il poeta. 

La rinascita, la “resurrezione”, spesso si palesa attraverso un incontro, attraverso un volto nuovo. Nel caso di Montale è il volto di una donna: “Dei sette libri che Montale ha pubblicato in vita — ha commentato Filippetti — uno solo ha una dedica: a I. B.”. Se per Dante è Beatrice, per Petrarca è Francesca e per Leopardi è Silvia, la musa di Montale, invece, è Irma Brandeis. “Di lei parla continuamente dagli anni Trenta fino alla fine della sua vita. La chiama con due nomi: Iride e Clizia”. 

Montale parla di lei in Le occasioni (1939), a lei dedicate, e anche ne La bufera e altro. “La bufera è la bufera e altro è lei, è soprattutto lei — dice Filippetti —. Altro è la sua bellezza che irrompe nella bufera della vita”. Il bagliore di speranza che si intravede oltre il “muro” e la “muraglia” è Irma: “Iride (poesia del 1944) torna a noi come continuatrice e simbolo dell’eterno sacrificio cristiano” scriveva Montale. E’ lei “il Volto insanguinato sul sudario”, è sua “l’opera che ha il volto e la forma di Cristo”, “perché l’opera Sua (che nella tua Si trasforma) dev’essere continuata”.

Da dove deriva il nome che Montale ha scelto per la sua Beatrice? “Per i greci Iride è la messaggera degli Dei, per gli ebrei è l’arcobaleno dopo il diluvio, per me, studioso di Giotto — sono sempre parole di Filippetti — è la mandorla che incornicia il Cristo Pantokrator del Giudizio Universale della cappella degli Scrovegni”. Qui il 25 marzo, all’alba di ogni anno, entra la luce che colpendo l’abside va a riverberarsi sui tre specchi incastonati nell’aureola illuminando il volto di Cristo. “La luce viene da Oriente, la vita ha un orientamento” ricorda il critico. La bussola, il faro, per Montale è lei, Irma, Iride, Clizia: “La mia cristofora”, “senza Clizia la mia vita non avrebbe avuto alcun senso, alcuna direzione” sottolineava il poeta. La figura di Irma si staglia sullo sfondo di un’esistenza cupa, illuminando il buio di una notte senza stelle. 

In Satura (1971), Montale scrive: “E ora, che ne sarà del mio viaggio? Troppo accuratamente l’ho studiato senza sapere nulla. Un imprevisto è la sola speranza…”. L’imprevisto è l’apertura al Mistero, è di nuovo un incontro, un nuovo volto che entra nella vita del poeta. Si tratta della pittrice ventisettenne Annalisa Cima, ultima Musa di Montale, conosciuta quando lui aveva 72 anni. Nel tempo, fra il vecchio poeta e la giovane artista s’instaurerà una tenera amicizia. A lei affiderà i suoi ultimi versi, prima di spirare recitando il Padre Nostro, in latino: “Il clou non è quaggiù — tu dici — è il prosieguo, l’eterno, v’è metamorfosi non metempsicosi. Ratio ultima rerum… id est deus. E fu così che il tuo parlare timoroso e ardente, mi rese in breve da ateo credente”.