La poesia non è una preghiera laica. Le preghiere non hanno alcuna possibilità etimologica di essere laiche. Esse si rivolgono sempre ad una divinità, sono il dialogo con l’assolutamente Altro che trascende l’uomo. Un colloquio che si svolge nell’interiorità e riporta in questa l’infinito superno. Viceversa, la grande poesia dell’oriente e dell’occidente, affonda le sue radici nell’invocazione divina; dall’omerico “Cantami o Diva” alla poesia giambica, passata dall’esclusivo uso cultuale dei riti demetriaci, al verso limpido di Archiloco, il primo dei lirici a offrire un autoritratto di guerriero e di poeta.
Lo studio della metrica latina e della ritmica greca è negletto nelle nostre scuole, e con la sua scomparsa affievolisce il ricordo della vocazione destinale della parola, quella percussiva, giaculatoria.
La poesia ha natura preliminarmente formale, di una forma precisa, misurata, essa è interamente forma, ha uno statuto ontologicamente tecnico, è materica. E il perfezionamento della tecnica poetica (notizia che apprendiamo dai lirici greci, appunto) è quello della propiziazione dell’ex-stasis (la sua finalità è estatica) cioè l’induzione di uno stato psicotropo dell’io che, portato l’io fuori dal sé, lo avvicini al divino; la poesia con la sua rigida regola di metri, tempi, cesure e quantità è primariamente psicopompa, nasce come un esercizio spirituale di evocazione e approssimazione: è essenzialmente dinamica (una dinamica mentale).
I più antichi testi poetici dell’umanità sono invocazioni espresse in metrica. Uno dei casi più rappresentativi è quello dei Salmi di Davide, apice di compiutezza ed eleganza formale. A questo proposito è di grande intelligenza (e di pregevole scrittura) uno studio di Laurent Cohen pubblicato dalle edizioni Giuntina, Il re Davide. Una biografia mistica. Sulla scrittura dei Salmi Cohen dice che: “Il re deluso inizia a scrivere come una confessione spirituale, in cui guarda con stupore a quella vita piena di grandezza che egli ha vissuto — diventando un manuale per tutti gli uomini di tutti i tempi desiderosi di restaurare la loro anima, che aspirano a resuscitare nonostante il loro passato pieno di atti colpevoli, di oscurità, di vergogna […]. I Salmi trattano dunque del problema dell’uomo — e non solo dell’uomo ebreo. Trattano di tutto ciò che vi è di distruttivo in lui, esplorano i recessi più folli della sua anima e, contemporaneamente, offrono al lettore le chiavi possibili, ma mai certe, del suo riscatto ai suoi propri occhi, di fronte all’altro e davanti a Dio”.
La poesia, geneticamente cultuale, è strumento privilegiato della meditazione spirituale anche quando il poeta non è dotato di un temperamento mistico; si veda il caso di Giacomo Leopardi — grande illuminista — quando affronta il tema del limite della conoscenza con gli strumenti forniti da Leibniz e Locke, ne L’infinito, o la metafora dell’asiatica erranza; egli medita sulla condizione dell’io e del suo naufragio, ma lo fa, paradossalmente, con le tattiche dell’evocazione spirituale che sono proprie della grande poesia mistica, e ha un sicuro referente nell’orfismo pastorale del salmista Davide.
O ancora più esplicitamente nel Novecento il caso di Celan, che con la lingua del salmo si rivolge a un Dio assente dicendo “noi t’invochiamo Nessuno”.
La poesia non è mistica, poiché la mistica, o la fede nelle meravigliose e progressive sorti dell’umanità, come ogni idea di un’elevazione del sé verso un orizzonte di perfezionamento, afferiscono alla psiche del poeta, e difficilmente possono essere culturalmente apprese ed interiorizzate. Ma avendo, appunto, a che fare con la forza creatrice della parola, la poesia è — nell’ambito della tradizione letteraria — il modello privilegiato per la riflessione dell’uomo intorno a se stesso e alla possibilità della trascendenza.
Certo a negare questi modelli intervengono le avanguardie con la loro forza iconoclasta e distruttiva e hanno una ragione storica: ci dicono che la poesia è puro gioco formale, al più strumento ideologico. Esistono gli strutturalismi che vogliono una forma auto-riferita e auto-finalizzata, esistono le ghigliottine, e i torturatori, e alcuni che distruggono le vestigia di un meraviglioso passato in nome del progetto progressivo di un dio.
Poi ci sono i custodi del senso, i continuatori, coloro che si appropriano della grande tradizione e su quelle vestigia innestano il senso di una rinnovata riflessione; postulano un’idea di bellezza, mutata dal passato, proiettata nel futuro che, mondata da dottrine storiciste, può essere moralmente orientata.
Essi vivono nel nostro tempo mediatico come esicasti, si costruiscono deserti virtuali e si esercitano nel chiuso delle loro stanze, nello studio delle loro fonti, nella pratica delle loro abluzioni mentali. E cercano quel tempo che è proprio della mistica come della grande poesia, un tempo incondizionato, dove l’umano risplende nella sua pienezza. Tale tempo, che acuisce i sensi, è il tempo della mistica e della grande poesia, esse hanno comune metronomo.
La grande poesia ha una perfetta coincidenza di pregevolezza formale e densità di significato. Parla di qualcosa che è universale e vicino al cuore degli uomini di tutti i tempi e serve a riportarli al loro stato incorrotto. Così la poesia pur non essendo mistica, compie lo stesso percorso. Questo ad onta delle antologie e delle mode perché la grande poesia è poesia del futuro, è una superstite e come tale difficilmente viene compresa dai contemporanei/sti.
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Il testo è la lettura svolta dall’autrice a Genova, in occasione del convegno “Per il dopo, per il principio“.