Potrà mai essere eliminato il male dal mondo? E potrà mai essere annullato il male del mondo? Sembrerebbe un interrogativo inutile, tanto è impossibile la risposta, una di quelle domande che percuotono per un istante, di tanto in tanto, il cuore e la mente di ciascuno di noi di fronte alla notizia delle stragi e dei massacri, alle immagini degli attentati e delle catastrofi, ma anche di fronte a quella più segreta, quasi inconfessata possibilità di male che abita il nostro stesso cuore. Eppure non si tratta di una domanda assurda: al contrario, essa fa venir fuori tutta l’esigenza di un senso vero, cioè personale e irriducibile, della nostra esistenza, vale a dire l’attesa di scoprire perché mai siamo al mondo e cioè se la nostra vita vale, letteralmente, la pena per qualcuno, e quindi per noi stessi. O detto altrimenti, se è possibile amare se stessi nonostante — o meglio, non nonostante, ma proprio attraverso lo scandalo delle nostre misure e dei nostri limiti.
L’alternativa sembrerebbe infatti già fissata: o il nostro male e il male del mondo alla fine ci impedirà di accettare fino in fondo il nostro esserci al mondo, troppo pesante e opaco per essere amato; oppure cercheremo di contrapporre al potere del male l’affermazione sperata — o disperata — di noi stessi, delle nostre capacità, dei nostri successi. Nella tenaglia in cui ci troviamo alla fine costretti, tra la presunzione e la depressione, tra il tentativo di crederci noi i padroni della vita e la tentazione di ritrovarci semplicemente “giocati” dalla vita e forse sconfitti da essa, quando si riaffaccia la domanda sull’enigma del male è come se una faglia si riaprisse: come una ferita, non dovuta soltanto al riconoscimento di un fallimento, ma anche, al tempo stesso, al riemergere di un’attesa che non possiamo mai decidere noi stessi di zittire. Possiamo negarla, giustificarla, finanche teorizzarla, ma difficilmente potremo toglierle la sua voce inconfondibile. E la sua voce chiede, appunto: potrà mai essere perdonato il male del mondo?
Una delle espressioni più acute e drammatiche di questa voce è quella che Fëdor Dostoevskij ci ha dato attraverso la voce di uno dei suoi personaggi cruciali, il “nichilista” Ivàn Karamazov, alle prese con lo scandalo della sofferenza degli innocenti. «Secondo la mia povera intelligenza terrena, euclidea — dice Ivàn — so soltanto che la sofferenza esiste e che i colpevoli non esistono, che ogni cosa deriva semplicemente e direttamente da un’altra, che tutto scorre e tutto si equilibra; ma queste non sono che sciocchezze euclidee, lo so bene, e non posso accontentarmi di vivere in base a simili sciocchezze (I fratelli Karamazov, 1879, libro V, cap. 4).
Secondo l’ideologia più diffusa il male si spiega con il meccanismo della causa e dell’effetto, dell’azione e della reazione, o detto altrimenti, si spiega semplicemente adducendo il fatto che la sofferenza (che pure esiste, tragicamente) non ha senso, e quindi non ha senso nemmeno trovarne dei responsabili, dei colpevoli, proprio perché non c’è più “colpa” e quindi non più “pena” e non più perdono possibili. Il male è puramente gratuito, tranquillamente assurdo, senza libertà. Tutto torna, il cerchio si chiude, e insieme con il male è il significato stesso che viene semplicemente annullato nel mondo: una prospettiva che richiama alla mente la dottrina dell’eterno ritorno dell’eguale che Friedrich Nietzsche elaborerà praticamente negli stessi anni (Così parlò Zarathustra risale al 1883). Ma proprio per l’ateo Ivàn, si tratta di una «sciocchezza euclidea»: la spiegazione del meccanismo è assurda, esattamente per il motivo che un uomo non può vivere in base ad essa.
E difatti, continua Ivàn, «Cosa mi importa che non esistano colpevoli, che ogni cosa derivi semplicemente e direttamente da un’altra, e che io lo sappia? Io ho bisogno di un compenso, sennò mi distruggo, e di un compenso non nell’infinito, astratto, chissà dove e chissà quando, ma qui, sulla terra, e voglio vederlo coi miei occhi». La teoria secondo cui le cose vanno così perché così devono andare, secondo l’ordine di una necessità cieca della natura (la natura fuori di noi e quella del nostro stesso arbitrio) non può essere compensata da una prospettiva nell’al di là, che lasci intatta la condizione presente. Che importa sapere che un giorno, alla fine dei tempi, sarà fatta giustizia, se a vincere oggi è la necessaria ingiustizia? O qualcosa accade di nuovo nel presente — un «compenso», ora — oppure è un’illusione, o peggio una truffa.
L’unica possibilità di credere a una soluzione reale dell’enigma è che io possa vederla compiersi realmente con i miei stessi occhi: «Io ho creduto e perciò voglio vedere anch’io, e se allora sarò già morto, mi devono resuscitare, perché se tutto accadesse senza di me sarebbe una cosa avvilente, sarebbe la distruzione di tutto». E con una sorta di struggente durezza, come un desiderio incendiato dalle contraddizioni della vita, che non accetta consolazioni o utopie, conclude: «Io non ho sofferto per concimare con le mie colpe e le mie sofferenze un’armonia futura in favore di chissà chi. Voglio vederlo coi miei occhi il daino che gioca accanto al leone e l’ucciso che si rialza e abbraccia l’uccisore; voglio esserci anch’io quando tutti sapranno finalmente perché le cose sono andate così».
La questione tremenda e irrisolta del male interpella tutta la nostra esigenza di giustizia. Ma qui non ci si può più fermare: la giustizia che noi vogliamo vedere compiuta chiede di comprendere anche la giustizia rispetto al male che non solo altri, ma noi stessi possiamo fare. Il problema non è solo ciò che vediamo accadere nel mondo, fuori di noi, ma ciò che accade continuamente nel mondo che è dentro di noi, che “siamo” noi stessi. È il problema della nostra stessa libertà. Per questo — facendo rivivere la corda forse più misteriosa e più “impossibile” della voce di Gesù, il Figlio dell’Uomo — Papa Francesco sta insistendo con tanto struggimento sul fatto che si può comprendere e vivere la giustizia solo a partire da uno sguardo di misericordia. Non per nascondere, sminuire o giustificare in alcun modo il male, ma per andare alla radice da cui esso può sempre nascere, cioè al fondo del cuore dell’uomo.
Nell’Omelia con cui ha annunciato un nuovo Anno Santo della misericordia (il 13 marzo scorso), viene riproposto il racconto evangelico di Gesù che, invitato a mangiare nella casa del fariseo Simone, viene raggiunto da una donna — «una peccatrice di quella città» — che si getta ai suoi piedi, bagnandoli con le sue lacrime e asciugandoli coi suoi capelli, tutta piena di quella commozione di chi si sente amato fino in fondo e perdonato. Esattamente in questo gesto si origina un nuovo nesso tra l’amore e il giudizio: per quella donna, dice Francesco, «non ci sarà nessun giudizio se non quello che viene da Dio, e questo è il giudizio della misericordia. Il protagonista di questo incontro è certamente l’amore, la misericordia che va oltre la giustizia». Quando invece il fariseo, guardando la scena, pensa tra sé che se Gesù fosse davvero un profeta saprebbe «che specie di donna» era quella, «invoca solo la giustizia e facendo così sbaglia. Il suo giudizio sulla donna lo allontana dalla verità e non gli permette neppure di comprendere chi è il suo ospite. Si è fermato alla superficie — alla formalità — non è stato capace di guardare al cuore».
La misericordia non sta anzitutto nella capacità di una nostra generosità, ma nell’accoglienza di un’iniziativa di Dio nei nostri confronti. Sta insomma nell’accettare di essere amati per noi stessi e non per il nostro merito nell’essere giusti. E qui paradossalmente la giustizia comincia a compiersi ora, come voleva Ivàn Karamazov: non alla fine dei tempi, quando tutto sarà chiaro (se lo sarà), ma nella luce di un incontro in cui la vita, anche con tutto il suo male, si chiarifica. La risurrezione di Cristo è dentro questo sguardo alla donna che piange; e lei può piangere così perché così è stata guardata.
E difatti quando Gesù chiede al fariseo quale dei due servi cui un creditore avesse perdonato i debiti lo amerebbe di più, quello con un debito maggiore o quello con un debito minore, Simone riconosce che sarebbe certamente quello a cui il creditore avesse condonato di più. E Francesco osserva: «Solo quando il giudizio di Simone è rivolto all’amore, allora egli è nel giusto». Il male è il contrario della giustizia, e la giustizia da parte sua mira a ristabilire e a risarcire l’ordine violato del bene giudicando e punendo il male come male. Ma nella misericordia può accadere qualcosa di impossibile: che il male divenga il luogo del perdono e della rinascita.
Va bene: e tuttavia — immaginiamoci quello che Ivàn potrebbe ancora obiettarci — cosa ne è di coloro che continuano a compiere il male e non accettano questo sguardo di misericordia (cioè, in fondo, che ne è di ciascuno di noi)? La questione resta aperta, e la domanda rilanciata: ma che cosa vediamo quando guardiamo al cuore dell’uomo? O meglio, che cosa vede e ci fa vedere Cristo quando guarda il nostro cuore? Senza ritornare a questo punto, il male resterà sempre e solo una questione di impossibile giustizia.