Un sistema viene costruito per l’uomo o l’uomo è un meccanismo del sistema? Come può una giustizia rivelarsi ingiusta? Sembrano questi gli interrogativi che emergono da Io non avevo l’avvocato (Mondadori, 2015), di Mario Rossetti. L’autore del libro è un ex-dirigente di Fastweb, coinvolto nell’inchiesta Fastweb-Telecom Italia Sparkle con l’accusa di associazione a delinquere, che lo ha portato prima in carcere, poi ai domiciliari e infine all’assoluzione completa. La storia di un uomo, protagonista di una vicenda incredibile, che ci accompagna nelle contraddizioni del nostro sistema-giustizia, di cui spesso parliamo ma che non conosciamo fino in fondo. 



Rossetti viene arrestato nel marzo 2010 e vengono sequestrati tutti i beni e bloccati conti correnti e carte di credito appartenenti a lui e alla sua famiglia. “Lo Stato, per difendere i suoi potenziali diritti futuri, si prende i tuoi beni oggi, anche se non provenienti dai reati contestati”. Qui comincia, oltre al suo calvario, una serie di questioni brucianti: come si può pensare di mettere una famiglia sul lastrico per ragioni di “giustizia”?



Viene il momento del carcere. “Non sono più una persona ma un numero. Un numero in una cella”. Certamente il problema non è far diventare i penitenziari degli hotel a 5 stelle, ma dei luoghi maggiormente a misura d’uomo, in cui anche le relazioni interpersonali siano più umane. Rossetti individua nella possibilità di lavorare e di imparare un mestiere una soluzione che consentirebbe ai detenuti da una parte di impiegare in maniera utile il proprio tempo, e dall’altra di ottenere qualcosa da offrire al mercato del lavoro, una volta conclusa la pena, per reinserirsi nella società. Ma la burocrazia, anche dietro le sbarre, complica tutto al limite dell’insormontabile.



E poi c’è il (mal)funzionamento della giustizia. Rossetti riscontra innanzitutto una scarsa competenza dimostrata da pm e finanzieri nel momento dell’interrogatorio. Non solo. “Nel nostro Paese — racconta Rossetti a proposito dei suoi arresti cautelari, in cui non sussistevano le motivazioni previste dalla legge— a fianco del codice penale scritto dal legislatore, esista un codice penale «materiale», che è quello che si applica nei nostri tribunali”. Il punto non è abolire del tutto la carcerazione preventiva, ma ripensare il suo utilizzo.

Rossetti sottolinea che diversi giudici svolgono bene il proprio lavoro e ribadisce la propria fiducia ultima nella giustizia, tuttavia l’atteggiamento generale, sia per le condizioni del carcere, sia per il comportamento di taluni magistrati, sembra essere spesso quello di una sentenza già scritta ancora prima di approfondire i fatti. In dubio, pro reo, dicevano i latini, ma Rossetti può smentirlo.

Non ultimi i mass media. Viviamo in un paese in cui le condanne vengono emesse a mezzo stampa e, quel che è peggio, senza aspettare l’esito dei processi. “La stampa fa da cassa di risonanza a quello che arriva dagli uffici della procura anche perché i procuratori e i loro uffici sono una fonte continua di notizie” racconta l’autore. I mostri vengono sbattuti in prima pagina, si costruiscono titoli di giornali e aperture di tg, ma non viene dato lo stesso risalto mediatico all’assoluzione di Rossetti e degli altri dirigenti coinvolti nell’inchiesta.

Così, sullo sfondo della vita sconvolta di un uomo che si vede privare ingiustamente della propria libertà, che si mette alla ricerca di un nuovo rapporto con se stesso, con la propria famiglia, che affronta il dolore straziante per la perdita di un figlio, ci sono le contraddizioni della giustizia e dell’informazione, quelle che noi vediamo per prime, ma che quando investono la vita di una persona ribaltano le proporzioni del problema, assumono le sembianze di una gogna anonima dove i meccanismi tendono inesorabilmente a prevaricare su quel che rimane di sé, che istintivamente si oppone all’ingiustizia ma che in ogni momento rischia di rompersi, di crollare.

La vicenda di Rossetti è l’esatto rovescio di quanto ha detto papa Francesco in un importante discorso dell’ottobre 2014 sulle questioni del carcere e della giustizia, il primato del principio pro homine, cioè della dignità della persona umana sopra ogni cosa. Ma Rossetti ha detto no, e ha deciso coraggiosamente di raccontare la sua storia perché considera il suo un caso che può ancora ripetersi. C’è da esser certi, purtroppo, che le conferme non mancheranno.