C’è più di un motivo per cui è importante parlare oggi di Spettri di Marx, prendendone sul serio la sfida teorica e tentando di rilanciarne la posta politica. Se, infatti, lo scenario culturale ed economico a distanza di tanti anni sembra cambiato, non lo è nel senso di un invecchiamento dei problemi intravisti e delle questioni poste allora da Derrida, quanto semmai di una loro radicalizzazione. Le paure di quel tempo, azzardiamo, sono diventate gli incubi del nostro: lo scenario è cambiato, si potrebbe dire, ma gli spettri non sono scomparsi dalla scena. Anzi, hanno preso corpo, ci ossessionano e ci terrorizzano più che mai. E, oggi come allora, la questione è “che farsene” di questi spettri. Come affrontarli, come affrontarne la visita, come porsi di fronte alla paura che ci fanno e che noi ci facciamo guardandoci in essi? 



Nel 1993, all’indomani del crollo del “blocco sovietico” e all’alba di quello che si annunciava come un trionfo planetario delle liberal-democrazie occidentali e delle sorti progressive del capitale, Derrida sentì l’esigenza “intempestiva” di confrontarsi con Marx. A un Marx prontamente dichiarato morto e sepolto dalla cultura mediatica ed accademica dell’epoca, Derrida contrapponeva il suo Marx redivivo, lo faceva parlare, di nuovo, come Amleto lascia parlare il fantasma del padre assumendosi il compito impossibile di accoglierne l’eredità e di portarne a compimento il desiderio. 



La mossa di Derrida ha almeno un duplice significato. Da un lato, si tratta di contrapporre al discorso dominante e unilaterale del libero mercato come condizione naturale e destino dell’umanità un pensiero “altro”, un pensiero dell’altro, dell’alterità radicale che riaccenda l’immaginazione politica al di là del sonno dogmatico non solo della deregulation economica ma anche del suo presunto opposto “di sinistra”: l’ipertrofia giuridica con cui le istituzioni cercano di imbrigliare, omogeneizzare, progettare, calcolare in anticipo la vita. La critica marxiana è ancora e sempre indispensabile per ottenere la giusta distanza dalle cose e permetterle di leggerne la trama nascosta nella forma di merce e nei conflitti sociali e globali che ad essa si intrecciano, nel mettere in discussione l’autonomia del politico laddove questo si mostra come mero esecutore di una volontà che si forma al di fuori dei contesti decisionali democratici. 



D’altro lato, dice ancora Derrida, tutto questo lavorìo critico che oggi e in futuro ci occuperà se vogliamo tenere testa agli stravolgimenti epocali in atto e riuscire a pensarli adeguatamente, è a un tempo prefigurato e scongiurato da Marx stesso. Derrida evoca Marx nel momento in cui il “marxismo” sembra declinare come paradigma teorico e politico proprio per dare parola al suo fantasma che ancora e sempre ossessiona i suoi avversari storici. 

Evoca il suo spettro che, come ieri, è “lo spettro di un comunismo che si aggira per l’Europa”. Non si finirà mai di fare i conti con questo spettro, avverte Derrida, come con ogni spettro che si rispetti. E tuttavia, ecco l’altro lato del discorso derridiano, non si potrà continuare a ripetere gli slogan con cui i marxisti stessi hanno cercato di imbalsamare l’opera di Marx. Non perché questi slogan siano falsi, avverte Derrida, ma perché di Marx ce n’è più d’uno e non si può essere “eredi di Marx” senza portarne a compimento l’eredità, il che vuol dire senza scegliere a quali delle sue ingiunzioni prestare fede e ascolto. 

Ogni eredità è tale perché si compie nello scarto tra ciò che si eredita e ciò che di tale eredità si fa. E questo discorso diventa liberante proprio nel momento dello scacco storico più cocente che il movimento operaio vive (e tale sconfitta è oggi forse più evidente e disarmante rispetto al tempo in cui Derrida scrisse questo testo). Perché allora il fallimento storico di un progetto politico può essere letto come l’esito di una lettura dei tanti Marx di cui Marx ci ha fatto eredi. In particolare, argomenta Derrida, di quel Marx che era a sua volta ossessionato dagli spettri e dalla spettralità e che sognava, non meno dei suoi avversari politici, la possibilità di un dominio “buono”, una padronanza senza padroni, certo, ma pure sempre un’esigenza di controllo, una marginalizzazione delle eccezioni, una pienezza della vita totale, senza ombre, senza scarti. Da questo elemento totalitario di uno dei tanti Marx che abitano l’opera di Marx, Derrida si congeda nel momento stesso in cui riconosce nella “decostruzione”, nel suo stesso stile di pensiero e di lavoro, un lascito indelebile di Marx e del marxismo. 

Il trionfo del capitale attraverso la mercificazione totale del vivente, celebrato sulle spoglie del comunismo “morto e sepolto”, appariva a Derrida, ed appare ancora oggi, come un gesto scaramantico di rassicurazione, uno scongiuro contro il fantasma di un altro possibile che abita il presente e lo infesta delle tracce di un’altra vita: tanto più l’esigenza di dominio si intestardisce nell’affermarsi come unica via (ieri, per  abbandono del suo avversario storico, oggi, rappresentandosi come unica alternativa alla barbarie fondamentalista), tanto più essa evoca lo spettro che la agita e verso cui il pensiero ha il compito di dirigersi con l’accortezza e l’umiltà che si deve ad ogni sfumatura che si sa decisiva. Ad onta di ogni rassicurazione in contrario c’è — ed è proprio sul senso e sulla modalità di questo “esserci” che occorre interrogarsi — dell’altro che si sottrae allo sfruttamento e alla pianificazione, alle contrapposizioni instupidenti e omicide ed è in e a partire da questo altro che si può ripensare oggi ad una politica che non sia solo spettacolarizzazione interessata o mera gestione dell’esistente. 

C’è del “comune” in questo altro, fosse anche solo il comune grembo in cui si incontrano delle differenze irriducibili, addirittura del “comunismo” si azzarda a dire Derrida, nel senso di un diverso modo di relazionarsi alla vita, di viverla e morirla, che non può presentificarsi che nella forma spettrale e messianica di un a-venire senza condizioni. Dunque non un ideale politico che si tratterebbe di realizzare nel futuro, bensì appunto la frequentazione con uno spettro che già da sempre ci abita e ci visita e di cui ogni potere (economico, politico, culturale, religioso) ha sempre avuto il terrore e che ha sempre cercato di esorcizzare, perché fa tutt’uno con ciò che il dominio, per sua natura, esclude per potersi instaurare come tale: l’indecidibilità, la singolarità, l’evento. Una politica all’altezza dell’oggi, dice Derrida, dovrebbe disporsi a pensare e praticare il legame che, lungi dall’esorcizzare lo scarto e lo smacco di cui è intessuta la vita, li accoglie come margini di ciò che ci rende autenticamente liberi. 


L’articolo anticipa la relazione dell’autore in occasione dell’incontro “Spettri di Marx”, quarto appuntamento (10 aprile) di un ciclo di cinque letture organizzate da Prologos. Il ciclo ha per titolo “Derrida lettore dei filosofi. L’evento del testo”. Dettagli e date su www.prologos.it