Poco più di tre anni fa abbiamo lasciato la Turchia di Erdogan trionfante. Una Turchia che, dopo quasi quarant’anni di voluto auto-isolamento e quasi silenzio, si era ridestata. Poi la nuova politica neo-ottomana di Davutoglu, attuale primo ministro. Il ruolo da protagonista nel mediteranno orientale. L’avviarsi della soluzione della questione curda. Le ambizioni europee. Gli accordi bilaterali con Siria e Iraq per la creazione di una nuova zona franca, una casa comune, senza visti e dogane, sotto la regia di Ankara. L’apertura al turismo, il recupero dell’identità ottomana e islamica, lo slancio degli studi di arte e letteratura. Il Nobel allo scrittore Orhan Pamuk. Istanbul capitale europea della cultura. La spinta personalista di Erdogan e l’accreditamento ai tavoli internazionali più rilevanti, da quelli per Olimpiadi ed Expo a quelli di Onu e Banca Mondiale.
E intanto le riforme interne. Il progressivo depotenziamento della classe militare, custode della laicità della Repubblica, a favore di una maggiore connotazione islamica, non solo della popolazione, che è sempre stata profondamente musulmana, ma delle istituzioni, quelle sì, invece, per Costituzione profondamente laiche.
A colpi di leggi e emendamenti, l’assetto interno dell’ordinamento turco si è modificato in modo quasi essenziale, contribuendo a restituirci la Turchia di oggi. Una Turchia profondamente diversa da quella che abbiamo lasciato poco più di tre anni fa.
In mezzo: le primavere arabe.
Con lo scoppio, infatti, delle rivolte nei Paesi del nord Africa e poi con la guerra in Siria, la Turchia ha come avuto un momento di smarrimento. E come non averlo? Di fatto è cambiato il mondo. Gli assetti e gli interlocutori sono drasticamente venuti meno, e in poco più di un anno, nuove direttrici geopolitiche hanno ridisegnato il Mediterraneo e il mondo arabo, ma soprattutto il più ampio mondo islamico.
L’acuirsi delle tensioni fra sciiti e sunniti, da un lato, e lo scontro, sempre più evidente, fra una concezione dell’islam affidato alla mediazione delle confraternite religiose, e uno alla rigidità del salafismo.
Frenata la politica di espansione neo ottomana. Frenata l’ambizione a interlocutore e risolutore del conflitto arabo-israeliano, ormai derubricato di fronte alle turbolenti vicende di Tunisia, prima, Egitto, Libia e Siria dopo.
Frenato l’iter per l’ingresso in Europa.
La Turchia di Erdogan si è per un certo tempo ripiegata di nuovo in se stessa. Quasi ha dato l’impressione di non saper nemmeno più gestire la propria ricchissima, e forse al tempo stesso ingombrante, realtà religiosa. Molte confraternite e movimenti islamici hanno tolto il sostegno a Erdogan (il caso più noto quello di Fethullah Gulen) spingendolo verso un islam più vicino a quello proposto dai Paesi del Golfo, di fatto i nuovi signori del Mediterraneo.
E allora ecco la Turchia stringere, ad esempio, insolite e pericolose alleanze con l’esuberante Qatar, condividendone ascese e discese. Eccola appoggiare i Fratelli musulmani e Ennahda prima, e lasciarli poi. Dichiarare, e mai realizzare, l’interventismo nella questione siriana. Da ultimo, le porose frontiere con l’Iraq, utilizzate dall’Isis per rifornimenti di armi, uomini e denari, che hanno insospettito più di un Paese occidentale e quasi tutti quelli del Golfo.
Intanto Erdogan è riuscito a completare la riforma dello Stato.
Da Repubblica parlamentare a Repubblica presidenziale, con tutte le conseguenze autoritarie del caso. Riforma che certo agevola l’azione nell’attuale contesto politico, ma che non incontra le sensibilità più democratiche e garantiste. La costruzione di un nuovo palazzo presidenziale, una reggia praticamente, da fare invidia ai sultani e agli sceicchi, ma lontana dall’austerità propria delle tradizionali istituzioni turche. Poi l’intransigenza verso le rivolte di piazza per la libertà di stampa e contro le norme severe in materia di censura. Ma nonostante tutto Erdogan è andato avanti. L’ultima decisione in ordine di tempo rispetto a quelle ricordate, poteri speciali alla polizia per la sicurezza del presidente e dello Stato.
Quale Turchia troviamo oggi? Quale Turchia, all’indomani della costituzione di una forza militare araba e sunnita? Quale Turchia, cioè, nel nuovo mondo? Una Turchia dal ruolo più sbiadito, certamente. Una Turchia che guarda di nuovo all’Europa come potenziale di sviluppo. Si noti la recente ripresa dei negoziati e l’accordo per il progetto Tap (corridoio di energia dal centro Asia all’Europa). E insieme cerca di riallinearsi con il nuovo assetto confessionale dei vicini arabi. La guerra dello Yemen è infatti una guerra di religione a tutti gli effetti, sunniti contro sciiti. La Turchia, da sempre legata alla cultura persiana, nazione nella sua cultura profondamente asiatica e poco araba, si trova oggi a dover scegliere. Una scelta difficile. Tentare di sparigliare, dandosi un ruolo alternativo alla tensioni fra sciiti e sunniti? Tentare un ruolo di mediazione, come fu in passato, fra le tante anime dell’islam? Proporsi come sintesi possibile fra occidente e oriente?
Davvero difficile dirlo, ma soprattutto realizzarlo. Tuttavia, seppure meno smagliante e più debole, la Turchia ha ancora un ruolo chiave da poter giocare. Ma, come ben segnalato da Alberto Ambrosio, nel recente libro L’Islam in Turchia (Carocci), esso richiede un investimento sul futuro e una, ancora non realizzata, riflessione sulla propria realtà islamica. Così scrive Ambrosio: “nel 2015 la Turchia sarà posta di fronte a una serie di scelte politiche nelle quali l’argomento religioso giocherà un ruolo tutt’altro che marginale. La posta in gioco è l’equilibrio tra democrazia e religione musulmana”.
Serena Forni Tajé