Qualche anno fa, nel corso di una lezione accademica (in filosofia), un giovane studente chiosa vistosamente un dialogo sulla libertà nell’attuale contesto culturale con l’esclamazione: “ma professore, lei insiste su questa libertà, ma noi (forse non l’ha capito…) la libertà non la vogliamo!”. Se lasciamo ancora passare l’equivalenza vox populi-vox Dei, tutta la storia del pensiero e dei suoi sforzi sembra oscurarsi al cospetto di questa giovanile sentenza, che trova passivamente consenziente quel manipolo di “giovani filosofi” alle prese coi primi testi universitari. 



Le infocate battaglie storiche per la libertà (o in nome di essa), il ’68 e la passione rivoluzionaria degli storici contestatori che hanno guidato popoli e società in avventure epocali regrediscono a puro “flatus vocis” per manuali scolastici: libertà è “parola” del passato per gente appartenuta ad un passato irrimediabilmente passato ed ora pietrificato nei libri…di filosofia o di storia. Scrivere o parlare di cose che “nessuno vuole” è, dunque, rischio che viene corso anche da/in questo mio tentativo: la coscienza di questo stato di cose fa parte, come punto d’abbrivio, del vivo di questo mio contributo sul tema della libertà religiosa. 



Parlare o scrivere, infatti, di “libertà religiosa” può palesarsi come una forma patologicamente aggravata di quello stesso quadro socio-culturale pietrificato che il giudizio del giovane studente paventa: di che stiamo parlando?! La stessa furia religiosa di Isis o di Boko Haram, con le loro sempre più numerose vittime cristiane, possono servire a giustificazione per una elusione — perfino ostile — del problema anziché come incentivo ad una riflessione di pensiero sulla questione, come su qualcosa di reale nel presente e non di passatistico-archeologico. Parlare di libertà religiosa senza accusare questo “diffuso” e serpeggiante dis-gusto per la libertà come tale è fare vuota retorica intellettuale, qualsiasi diritto (nuovo o vecchio che sia) si tratti di far valere. 



Non si può più saltare ipocritamente l’amara constatazione di P. P. Pasolini dal profilo sempre più attuale: «I giovani che sono nati e si sono formati in questo periodo di falso progressismo e falsa tolleranza, stanno pagando questa falsità (il cinismo del nuovo potere che ha tutto distrutto) nel modo più atroce. Eccoli qui intorno a me, con un’ironia imbecille negli occhi, un’aria stupidamente sazia, un teppismo offensivo e afasico — quando non un dolore e un’apprensività quasi da educande, con cui vivono la reale intolleranza di questi anni di tolleranza. In effetti la tolleranza al posto della repressione diretta e poliziesca, è stata una decisione del potere; lo stesso potere che ha deciso l’inutilità di valori come la Chiesa, la Patria, la Famiglia, la Moralità del risparmio, ecc., in quanto dannosi all’espansione economica e alla figura ideale del consumatore (…). Non sono i giovani a essere cambiati. E’ il potere che è cambiato (…). Si direbbe che le società repressive avevano bisogno di soldati e inoltre di santi e di artisti: mentre la società permissiva non ha bisogno che di consumatori» (Scritti Corsari).

Mi appresto ad accettare una tale sfida, costretto a ripensare il tema della libertà religiosa alla luce di un così realistico rilievo: anche un tale diritto — alla libertà religiosa — potrebbe finire, infatti, tra i tanti beni “da-consumare” poiché bene del (per il) “consumatore” come suo proprio soggetto portatore. Evidentemente gli scaffali degli odierni centri commerciali non detengono il monopolio sul nostro consumismo quotidiano; quelli del variegato marketing religioso (nel mercato globale attuale) si presenta spesso più nutrito e “spiritualmente” connivente con esso: trovarsi a scegliere tra riti e pratiche religiose può essere consumisticamente più allettante che la scelta tra un’infinita varietà di dopobarba. La grammatica del consumatore vi può permanere non solo immutata ma anche patologicamente più strutturata: la libertà religiosa è diritto tanto quanto quello dell’acquisto di qualsiasi “bene-di-consumo”?! 

Ora, per non buttarla — s’intende anche legittimamente ed urgentemente — in politica vorrei riconsiderare un tale “diritto” alla luce della libertà religiosa del soggetto che ne reclama il legittimo riconoscimento al cospetto della polis. Di quale diritto si può parlare, infatti, se esso non pertiene ad una libertà che ne vive e porta il senso? La sua mancanza, infatti, presenta oggi una gravità condizionante anche dinanzi al diffuso fenomeno del non-rispetto (esplicitamente, violentemente o surrettiziamente) del “diritto alla libertà religiosa”: essa ne segna — in linea di fatto come di principio — il suo svuotamento di senso e la sua cristallizzazione formalistica. 

Ci viene in aiuto, a riguardo, l’autorevole documento conciliare Dignitatis humanae (1965), che ci fornisce il fattore decisivo per un ripensamento critico della questione; esso, quanto alla “libertà religiosa” spende una parola “grossa”, su cui è quanto mai facile sorvolare, per qualificarne il contenuto: «gli esseri umani devono essere immuni dalla coercizione da parte di singoli individui, di gruppi sociali e di qualsivoglia potestà umana, così che in materia religiosa nessuno sia forzato ad agire contro la sua coscienza né sia impedito, entro debiti limiti, di agire in conformità ad essa: privatamente o pubblicamente, in forma individuale o associata» (DH I, 2). 

Attestare la questione della libertà religiosa sulla centralità della coscienza può voler dire l’aggravarsi del problema anziché avviarlo ad una ragionevole soluzione, data l’equivocità a cui è esposto il significato stesso di questo termine nell’uso comune come in quello anche intellettualmente più affinato. Trovo, dunque, calzante l’osservazione con cui V. Belohradsky la qualifica nel contesto culturale europeo: «Tradizione europea significa non poter mai vivere al di là della coscienza riducendola a un apparato anonimo come la legge o lo Stato. Questa “fermezza” della coscienza è un’eredità della tradizione greca, cristiana e borghese. L’irriducibilità della coscienza alle istituzioni è minacciata nell’epoca dei mezzi di comunicazione di massa, degli Stati totalitari e della generale computerizzazione della società. Infatti è molto facile per noi riuscire a immaginare istituzioni organizzate così perfettamente da imporre come legittima ogni loro azione. Basta disporre di un’efficiente organizzazione per legittimare qualunque cosa. Così potremmo sintetizzare l’essenza di ciò che ci minaccia: gli Stati si programmano i cittadini, le industrie i consumatori, le case editrici i lettori, ecc. Tutta la società, un po’ alla volta diviene qualcosa che lo Stato si produce»  (Il mondo della vita: un problema politico, 1981). 

Far poggiare la libertà religiosa — ed il diritto corrispettivo — sulla coscienza implica, dunque una ripresa di quell’eredità antica ma anche fare i conti con la situazione in forza della quale, inversamente, la riduzione della coscienza implica, nel nostro tempo, quella di “legge” e “Stato” ad “apparato anonimo” come anche della vita della società ad un prodotto dello Stato. In essa, eventuali “nuovi diritti” rivendicati possono essere svuotati di vita cosciente, dunque privi del loro proprio soggetto giuridico: il diritto alla libertà religiosa può correre più gravemente — oggi — un tale rischio. 

(1 — continua)