Da quando è cominciata la crisi dei mercati finanziari che poi si è tramutata in crisi economica, si è discusso tanto di Europa. Ancora oggi che lo spauracchio del fallimento della Grecia occupa le prime pagine dei giornali è lecito interrogarsi, al di là delle questioni economiche e nella speranza che il ritorno alla crescita sia una realtà più che un sogno, su quale sia l’idea di Europa originaria e quale vorremmo che fosse oggi.



Tante volte si è parlato del fatto che siamo partiti da una costruzione di tipo normativo-monetaria, senza mai integrare un mondo di valori, di comune sentire, di lingua, di strategia politica, di pensiero sull’immigrazione e sull’intercultura. Per non parlare di una politica estera condivisa. Curiosamente tutte queste riflessioni, che da qualche tempo avevo lasciato da parte, probabilmente scoraggiata dal fatto che mi sembravano diventate solo di interesse per un ristretto circolo culturale, sono riaffiorate con forza e con entusiasmo leggendo un testo da cui mi aspettavo tutt’altro.



Immersa nelle pagine di L’amico scrittore di Daniel Pennac (conversazione con Fabio Gambaro) pensavo di concentrarmi sulle riflessioni riguardanti la professione del romanziere francese, sulla saga della famiglia Malaussène. Invece la chiacchierata sconfina nel tema del dialogo. Del confronto. Dell’integrazione. E per contrasto, dell’estremismo. E, quasi naturalmente, arriva a discutere di Europa. 

“Dell’Europa — sostiene Pennac — abbiamo spesso una visione astratta e caricaturale. La pensiamo solo come una struttura tecnocratica e burocratica che impedisce ogni manovra alle nazioni, dando così per buono il fantasma del funzionario europeo che, in nome dell’euro, distrugge gli interessi nazionali. E’ troppo facile scaricare ogni colpa su Bruxelles, anche se è vero che spesso l’Europa si è presentata solo con il volto dei burocrati al servizio degli interessi dei mercati e della finanza”. 



Da queste parole è evidente che siamo lontani, nel percepito comune, da quell’idea di Europa come posto ideale. Di patria che, sommando le eccellenze dei singoli Stati membri, dà origine a un Superstato con potenzialità ancora maggiori. E migliori condizioni per ogni singolo individuo. Soprattutto in termini di aspettative di vita. Si è perso, insomma, nell’analisi di Pennac quell’entusiasmo, quella speranza e quella voglia di sognare un mondo migliore. 

Cosa possiamo fare oggi, allora? Cercare di recuperare, innanzitutto come individui, almeno una parte di quello spirito che nell’Illuminismo portava Montesquieu a scrivere: ” Se fossi a conoscenza di qualcosa che mi fosse utile, ma risultasse pregiudizievole per la mia famiglia, lo scaccerei dalla mente. Se conoscessi qualcosa di utile alla mia famiglia, ma non alla mia patria, cercherei di dimenticarlo. Se conoscessi qualcosa di utile alla mia patria, ma dannoso all’Europa, oppure di utile all’Europa e pregiudizievole per il genere umano, lo considererei un delitto”. 

Sto pensando di scrivere questa frase in camera mia e nel mio ufficio. Per ricordarla a me stessa ogni giorno. Per provare a insegnarla ai miei figli. Per dare un piccolo contributo a realizzare un Paese diverso, e un’Europa capace di tornare a far sognare ogni cittadino. “La paura — dice Pennac — che è sempre assenza di futuro, fa rinascere antichi egoismi. Insomma, l’Europa mi esaspera, ma mi esaspera ancora di più il fatto che essa ci serva da capro espiatorio per non guardare in faccia le nostre mancanze e i nostri difetti”. Forse è tornato il momento di parlare di futuro. Grazie, signor Malaussène.