“Amor, ch’a nullo amato amar perdona”, “Galeotto fu ‘l libro e chi lo scrisse”, “E caddi, come corpo morto cade”… E ancora: “Quali colombe dal disio chiamate”, “La ragion sommettono al talento”: il canto V dell’Inferno dantesco, con le sue celebri ed icastiche espressioni, è sicuramente uno dei luoghi della letteratura italiana più presenti all’orecchio e alla memoria del lettore italiano (e non solo).



E tra i fattori che hanno contribuito al diffondersi della fama dell’episodio di Paolo e Francesca c’è sicuramente, oltre alla sapiente maestria poetica di Dante che in questo canto raggiunge uno dei suoi vertici, l’immediato interesse che l’argomento suscita in un qualsiasi lettore: la vicenda della passione amorosa. Fra tutti i peccati che i dannati scontano nei vari cerchi infernali, quello dell’amore passionale è quello che più immediatamente permette un’immedesimazione da parte di chi legge, essendo l’amore (in qualsiasi sua forma) una delle vicende più profonde della storia di ogni uomo.



Questa immediata consonanza, se pure ha contribuito e contribuisce a generare un sano interesse per il passo dantesco in questione, rischia tuttavia di diventare un ostacolo qualora non si voglia veramente giungere al profondo significato morale che Dante ci mostra a proposito della vicenda dei due amanti. 

Basterebbe porsi innanzitutto alcune domande per “sfondare” la possibile superficie di una lettura sentimentale del canto V: che cos’è l’amore (per Dante, e per ciascuno di noi)? Come si trova e come prende posto nell’animo umano? Perché punire nell’Inferno un’esperienza così profonda e totalizzante, fra le più affascinanti della storia umana? E che cosa afferra Dante dinanzi alla vista dei due amanti, eternamente uniti eppure mai in pace, tanto da farlo cadere come “corpo morto”?



La domanda sulla natura di Amore, protagonista del dibattito tutto duecentesco che dalla scuola siciliana arriva ai poeti del “Dolce stil novo” (passando per l’imprescindibile De Amore di Andrea Cappellano), vede affidato a Dante un ruolo di primo piano. E nella sua Commedia Dante tenta di proporre la sintesi di un lungo cammino personale che dalla Vita Nuova e dalla perdita di Beatrice lo porterà alla visione di Dio facie ad faciem.

Il canto V rappresenta uno snodo fondamentale di questa sintesi. La vicenda è nota: Francesca, nativa di Ravenna, moglie di Gianciotto Malatesta signore di Rimini, si innamora di suo cognato, Paolo Malatesta. I due, sorpresi dal marito di lei, vengono barbaramente uccisi. La pena dei due amanti sarà quella di essere per l’eternità in balia di un vento in tempesta, della “bufera infernal che mai non resta”. Possiamo soffermarci su alcuni passi, in particolare, che è come se mettessero in gioco le questioni più importanti che animano il cammino spirituale di Dante pellegrino attraverso i tre regni.

Innanzitutto, l’espressione al v. 39, “la ragion sommettono al talento”, che identifica la natura del peccato scontato in questo secondo cerchio: la ragione, elemento distintivo dell’essere umano (come sottolineato da Dante stesso nel Convivio seguendo Aristotele, il grande protagonista della filosofia duecentesca), è stata in questo caso sottomessa all’istinto, invece di governarlo seguendo la conformazione della natura umana (che Dio ha stabilito essere “razionale”). Ed è interessante ricordare come per Dante il connotato di tutti i dannati sia proprio l’aver perduto “il ben de l’intelletto” (Inf., III, 18).

In secondo luogo, il discorso di Francesca, che, se privo del risentimento che altri dannati mostreranno verso il giudizio divino, sembra tendere ad una continua “giustificazione” dei due amanti: ad Amore, in qualsiasi maniera si manifesti, è impossibile non corrispondere (v. 103); Amore si lega “ratto” ad un cor gentile, come fu quello di Paolo (v. 100); leggendo insieme, i due amanti erano privi di qualsiasi sospetto, quindi il loro non fu un atto deliberato (v. 129); la colpa fu del libro, “Galeotto” come il siniscalco che indusse Ginevra a baciare Lancillotto.

In terzo luogo, la pietà che Dante dimostra per i due amanti e che lo prende così tanto da farlo venir meno.

Partiamo dall’ultima e dalla prima osservazione. Quella di Dante non sembra essere in nessun modo una giustificazione dei due amanti, un compatimento che si arrende davanti all’insondabile giustizia divina (come alcuni hanno proposto): sembra piuttosto essere il dolore dinanzi alla pena di un peccato che, come tutti gli altri peccati, sottrae umanità all’uomo stesso, lo rende meno libero. Quella sostanziale, strutturale apertura alla realtà e all’alterità che nell’antropologia aristotelica e tomista è espressa dall’inclinazione umana, dalla sua voluntas, se non è retta dalla ragione è paragonabile al movimento degli animali, i quali sono “mossi” dall’esterno e non muovono se stessi liberamente. L’amore umano invece è proprio questo movimento, libero e ragionevole, frutto di un’elezione, verso qualcosa che si è giudicato essere un bene per sé. Dante sa tutto questo, e nello stesso tempo sa che il peccato in cui sono incorsi Paolo e Francesca è una drammatica espressione della grandezza umana: più un’esperienza è totalizzante, come l’affezione nell’uomo, più lo chiama verso l’alto, più rischia anche di farlo cadere in basso. Dante sa tutto questo, esperto “de li vizi umani del valore” ed essendo passato anche lui, in qualche modo, attraverso una tale concezione dell’amore (luogo comune della critica è la condanna, in questo canto, di tutta una letteratura che dai provenzali arriva ai poeti toscani, fra le cui fila anche Dante ha militato).

Francesca però sembra ignorare una parte del problema, sottolineando la fatalità dell’accaduto ed eliminando la possibilità di scelta da parte sua e di Paolo. Ma Dante per ora è “confuso” davanti ai due cognati (Inf., VI, 2-3): dovrà proseguire il suo viaggio per capire come stanno veramente le cose. 

Nei canti XVI-XVII-XVIII del Purgatorio infatti, al centro esatto della Commedia, Virgilio gli illustrerà come l’amore dell’uomo sia sempre libero di scegliere la propria strada, al di là di qualsiasi circostanza esterna. E alla fine del poema, Dante riconoscerà all’entrata nell’Empireo “il punto che mi vinse”, il luogo divino cioè che vince la debolezza delle sue facoltà, chiaramente corrispondente al “punto che ci vinse” dei due amanti, in un venir meno delle umane capacità che però qui, nel Paradiso, significa compimento di esse, e non annullamento, come fu nel caso dei due amanti.

Paolo e Francesca non sono all’Inferno per un eccesso di desiderio, ma per non aver condotto il desiderio verso il suo unico vero fine, per non averlo dispiegato in tutta la sua potenza (intesa in senso filosofico): Dante, al contrario, ha accettato liberamente di essere condotto, dal proprio amore umano per Beatrice, davanti a Dio, fino al compimento di ogni anelito umano, “al fine di tutt’i disii”.


L’articolo è una sintesi dell’intervento fatto dall’autore nell’ambito del recente ciclo di conferenze organizzato dalla Società Dante Alighieri – comitato di Torino in occasione del 750mo anniversario della nascita di Dante.