In un simile stato di cose, che ne è della centralità della coscienza nel conclamare il diritto alla libertà religiosa? Per rispondere vorrei seguire l’indicazione culturale di Belohradsky riandando a quel momento della storia tardoantica in cui un neoconvertito alla vita cristiana — san Paolo — parla con apprezzamento e stima della “coscienza” dei suoi contemporanei pagani: “Quando i pagani, che non hanno la Legge, per natura agiscono secondo la Legge, essi… sono legge a se stessi (legem non habentes ipsi sibi sunt lex). Essi dimostrano che quanto la legge esige è scritto nei loro cuori, come risulta dalla testimonianza della loro coscienza (testimonium reddente illis conscientia ipsorum) e dai loro stessi ragionamenti (inter se invicem cogitationibus) che ora li accusano (accusantibus) ora li difendono (defendentibus)” (Rm 2,14).
Eh già …in un mondo (quello degli odierni stati teocratici alla stessa stregua di quello greco-romano) in cui lo Stato si produce le “sue” religioni, coi rispettivi culti, quest’uomo fa valere la coscienza come sede appropriata della “legge”, luogo della sua “scrittura” (annoto: le cosiddette “leggi non-scritte”, di memoria antigonea, sono qui già destituite come illegittime): è il nucleo vitale conferitore di senso in atti e giudizi quanto all’accusare o difendere. Questo legem non habentem ipsi sibi sunt lex, in cui la coscienza consiste, non appare a Paolo come indifferenziata ed irenica sfera interiore che presieda ad un altrettanto immunizzante mondo delle pratiche religiose (sociali o individuali che siano). Essa è vita “legislativa”, dove la legge del pensiero presiede e procede all’imputazione di atti giuridici (inter se invicem cogitationibus), in difesa od accusa, al cospetto di una coscienza “testimone” (testimonium reddente illis conscientia ipsorum): è vero? È giusto? È bello? È buono?
Ecco, per Paolo, è proprio questa la vita di una persona e di una società che lo Stato “non può produrre” da-se-stesso: lo spazio del “sacro”, occupato fino ad ora dal variegato mondo del mercato religioso pagano “che lo Stato si produce”, viene adesso abitato da questa vita cosciente che travalica il mitico-irrazionale funzionale al potere ed eccede — normativamente — quella riduzione di sé (ma anche dello Stato e della legge) ad “apparato anonimo”.
Così anche la “libertà religiosa” viene sottratta alla logica consumistica di una scelta indifferenziata ed arbitraria tra gli scaffali del nutrito marketing religioso globale. Il suo spazio cosciente è nuovo spazio per il vero “culto”: è lo spazio dell’io come ordine di un dialogo vivente (invicem: offerta e risposta), perciò “scritto”, parola. Oso dire che questa imbeccata di Paolo sull’io-coscienza come centro dinamico della stessa “libertà religiosa” è un tema ancora — a mio sommesso avviso — troppo ignorato (anche nell’accademia teologica come in quella filosofica) nell’attuale dibattito sulla libertà religiosa, facilmente ridotta, banalmente, ad una certa, indifferente scelta delle forme cultuali della devozione.
Proverei ora a declinare le movenze di questa “coscienza” — in senso paolino — dall’interno dell’esperienza pagana tardoantica, così da impedirci di confonderne la trattazione con una qualche surrettizia forma di apologia di una qualche “religione”, fosse anche quella “cristiana”. Lo faccio con due testi di quella tradizione che (con fedeltà al pronunciamento iniziale di V. Belohradsky) è genuinamente greco-romana, raffrontandoli poi con un passaggio dalla patristica cristiana: di qui qualche nostra conclusione. I primi due mi danno modo di indicare, per così dire in-negativo, i tratti della coscienza religiosa pagana laddove essa è, internamente, accusa esigenziale di una mancanza, preziosa per il nostro contributo.
Il primo dei testi scelti è tratto dal De natura deorum di Cicerone, scritto nel I secolo a.C. Chi parla è un pontefice pagano, Cotta, preposto al culto, nella cui coscienza si assommano simmetricamente un certo scetticismo filosofico ed un intransigente conservatorismo religioso: “Io che sono un pontefice e credo che bisogna conservare piamente le cerimonie religiose e tutto il culto nazionale, vorrei avere, in ciò che concerne il primo punto (sc. esistenza degli dèi) più di un’opinione, vorrei pervenire alla conoscenza vera (…) Dovevo difendere le credenze che ci hanno trasmesso i nostri antenati riguardo agli déi immortali, ai sacrifici e alle cerimonie religiose. Io sono pronto a difenderle come ho sempre fatto e nessun discorso, sia quello di un sapiente o di un ignorante, mi farà abbandonare l’opinione tradizionale relativa al culto, quando si tratta della religione (…). La religione romana è consistita in primo luogo nei sacrifici e negli auspici (…). Ho la convinzione che, quando Romolo istituì gli auspici e Numa i sacrifici, posero i fondamenti della nostra città (…). Tu conosci adesso qual è il sentimento di Cotta, il pontefice. Ma ad un filosofo come te, io debbo domandare di fondare la religione con la ragione; davanti all’autorità che hanno i nostri antenati io mi inchino senza chiedere loro una giustificazione razionale” (De natura deorum, I-III passim).
La coscienza religiosa del pontefice soffre un’evidente coazione dovuta ad un dualismo patologico: pur forte di conservazione si vede povera e debole di ragione e domanda così “di fondare la religione con la ragione”. Attenzione: questo stato coatto della sua coscienza rileva una patologica condizione statutaria negli stessi “fondamenti della nostra città”. Egli non si accontenta di presiedere autorevolmente al variegato cielo religioso del politeismo pagano e delle sue più fantasiose forme cultuali. Per lui (com’è attuale questo!) è questione di “pervenire alla conoscenza vera” di quel mondo; anche per lui, come per noi, “riguadagnare i fondamenti è l’urgenza più grande che abbiamo” (J. Carrón).
Sottolineo che questa situazione è attuale proprio in quanto non riguarda solo — o tanto — chi, come quel giovane studente, abbia deciso di “non volere la libertà” ma, a più forte e pertinente ragione, coloro che intendono (urgentemente e legittimamente) difendere e promuovere il diritto alla libertà religiosa. Fuori da questo “voler pervenire alla conoscenza vera” di ciò cui si rende culto, si perpetra — oggi più che allora — lo stato menzognero, accusato da Pasolini, di una coscienza “con cui vivono la reale intolleranza di questi anni di tolleranza”. È proprio questo stato menzognero della coscienza religiosa odierna, anch’esso voluto dal potere come nell’antichità pagana, il miglior alleato di quella “società permissiva” che non ha bisogno che di “consumatori”. Il “mercato della coscienza” sostituisce ora, religiosamente, la “coscienza del mercato”. Reclamare per sé “una conoscenza vera” di ciò che quella coscienza esige è, in questo senso, il miglior servizio della libertà religiosa alla odierna polis: essa urge dunque, più che allora, “domandare di fondare la religione con la ragione”.
La coscienza su cui è fatto poggiare il diritto alla libertà religiosa comporta essenzialmente un’istanza di ragione come spazio di offerta della verità all’umana esperienza. Non si tratta solo o tanto — come nel mondo del pantheon romano — di accrescere ipertroficamente l’offerta dei culti legittimi bensì di legittimare, a buon diritto, lo spazio di offerta della verità nell’ordine di questa coscienza che è “civica” (relativa cioè alla polis) più che — e non solo — religiosa. Un tale spazio si profila sempre più, alla luce della coscienza pagana di Cotta, come una possibilità di liberazione “della” libertà religiosa “dalle” sue riduzioni “religiose”: lo spazio della coscienza, infatti, trova nell’appello della verità il suo richiamo primigenio. Un suo eventuale congedo da questo appello per via “religiosa” la consegnerebbe inesorabilmente alla sua delegittimazione individuale e sociale allo stesso tempo, insomma alla sua connivente svendita alle forme temporanee e mutevoli del potere: religione oppio dei popoli. Riguadagnare i fondamenti è, finalmente, lavoro urgente (di pensiero) che pertiene eminentemente alle competenze di una tale “coscienza”…per quanto pagana o cristiana possa essere, in qualsiasi latitudine “religiosa” possa trovarsi.