L’apparente inutilità della bellezza, ovvero una sera con Edoardo Rialti e Oscar Wilde: “Non è assolutamente vero che un bambino non ha la percezione della bellezza, dell’estetica. Io ricordo benissimo quando, a 7 anni, lessi per la prima volta Il fantasma di Canterville. Non rimasi colpito soltanto dal cosa, rimasi colpito dal come: dal rapporto fra i sostantivi e gli aggettivi, dalle sfumature, dal glorioso banchetto di quello che veniva dispiegato all’interno del testo…”. E’ così, dalla sua fascinazione giovanile per lo stile di Oscar Wilde, che Rialti ha esordito alla quarta e ultima serata del Mese letterario, la rassegna culturale che anche quest’anno, grazie all’impegno profuso dalla Fondazione San Benedetto, ha acceso le menti e gli animi delle centinaia di persone giunte all’auditorium Balestrieri di Brescia. La magia, la simbiosi fra pubblico e relatore, si è ripetuta anche giovedì 30 aprile, grazie alla sinfonia letteraria ed esistenziale di Wilde: il dandy, l’esteta, l’uomo dello scandalo, ma anche “l’alfiere dell’inutile”.



Dal successo all’esilio, dal carcere alla riscoperta di sé. Seguendo il drammatico percorso del raffinato aforista, Rialti — che lo scorso anno, sempre al Mese letterario, aveva presentato Omero — ha posto l’attenzione sulle somiglianze fra l’autore de Il ritratto di Dorian Gray e i personaggi dell’epica greca: Achille e Ulisse. Fra questi ultimi e Wilde “c’è una sorta di misteriosa continuità — afferma Rialti —, c’è qualcosa di affine fra chi ha ‘bruciato la candela dai due lati’ e un re in esilio”.



Quali speranze e quali paure ci ha lasciato Wilde? Per rispondere non si può prescindere dalle origini irlandesi del drammaturgo. La madre dello scrittore, Jane Francesca Elgee, poetessa legata ai gruppi indipendentisti, soprannominata  “Speranza della Nazione”, introdusse il piccolo Wilde nei circoli letterari e politici di allora, con relative ribellioni e grane legali. Fu proprio in quel periodo che il bambino pronunciò una frase drammaticamente premonitrice: “Un giorno io sarò protagonista di un grande processo…”.

Il primo ritratto di Wilde adulto fornito da Rialti è collocato nell’Inghilterra vittoriana, “un mondo arcigno costellato da tube e frack”. Qui fa il suo ingresso un uomo che scompagina mode e costumi, “vestendosi di velluto, con pantaloni a mezzagamba e calzettoni, come nel ‘700; una farfalla colorata in un mondo di nero e di grigio che si diverte con il suo umorismo straordinario a provocare la società”. Da un uomo che asseriva di trovare difficile il vivere all’altezza delle proprie porcellane, l’Inghilterra non poteva non aspettarsi che non fosse quanto meno scandaloso. Le sue pose e le sue stranezze diventano in breve celebri, tanto da attirare l’attenzione di un impresario americano che decide di mettere in scena uno spettacolo umoristico su di lui. 



A 26 anni Wilde visiterà gli Stati Uniti in lungo e in largo, rilasciando interviste, tenendo conferenze sull’arte e la letteratura: “Wilde è un grande alfiere dell’estetismo — ha commentato il relatore che per le edizioni Lindau ha raccolto le Interviste americane —. Nell’Inghilterra del positivismo, un mondo di fatti e di strumenti meccanici, l’estetismo è una sorta di grande reazione: a Wilde non basta l’utile, lui vuole l’inutile, il bello”. Da qui l’attualità dell’autore: “Credo che Wilde sia uno degli autori più contemporanei, più politici del nostro tempo — e anche questo è un segno di speranza — proprio perché è un alfiere dell’inutile”.

Fra aneddoti e battute taglienti tratti dalla produzione di Wilde, il discorso di Rialti si sposta nuovamente in Inghilterra. Al ritorno dagli Stati Uniti lo scrittore si sposa ed ha due figli. E’ l’inizio della “stagione dorata”, con la pubblicazione de Il ritratto di Dorian Gray dove fa il suo ingresso “l’ossessione fra apparenza e realtà”, sintomatica del dissidio interiore che accompagnerà Wilde nel corso della sua esistenza e delle sue relazioni, quella con Alfred Douglas in primis. Da qui al processo, alla scoperta, da parte del grande pubblico, dell’omosessualità del drammaturgo, il passo è stato breve. “Wilde si difese come un leone — ha ricordato Rialti. In tribunale i giudici leggendo un passaggio di un libretto osé gli chiesero se l’avesse trovato immorale. ‘Peggio, è scritto male’ fu la risposta”.

Al di là del sarcasmo, la vicenda processuale si conclude, per lo scrittore, con la condanna a due anni di lavori forzati. La discesa negli inferi ha inizio: in carcere subisce soprusi e violenze, senza contare “il divorzio dalla moglie e i figli che non lo vedranno mai più e che dovranno cambiare nome”. Fra le ombre dell’abisso carcerario prende forma De Profundis, una lunga lettera indirizzata a Douglas nella quale Wilde confessa che il carcere gli ha tolto tutto, tranne se stesso: “Riconoscere che l’anima dell’uomo è inconoscibile è il risultato supremo della saggezza. Il mistero finale è se stessi”. La comunione con il proprio io spinge Wilde verso l’accettazione del dolore, e, senza per questo rinnegare nulla del suo passato, l’estetismo trova una sua continuità anche nella sofferenza: “Non rimpiango per un solo momento di essere vissuto per il piacere — scrive — non ci fu piacere che non sperimentai, gettai la perla della mia anima in una coppa di vino, scesi il sentiero fiorito al suono dei flauti. Vivevo nutrendomi di miele. Ma continuare a vivere la stessa vita sarebbe stato un errore, perché mi avrebbe limitato. Dovevo andare oltre…”. 

In quell’oltre s’intravede anche Cristo, “una figura importante nella vita di Wilde”. In carcere Wilde ritradurrà, infatti, tutto il Vangelo, fornendo la sua interpretazione delle scritture: “Cristo — scrive  — non aveva pazienza con gli ottusi sistemi meccanici che trattano le persone come se fossero cose, come se qualcuno, o magari qualunque cosa, fosse simile a qualunque altra cosa al mondo. Per Lui non c’erano leggi, c’erano soltanto eccezioni”.

Il tema dell’unicità della persona, della bellezza di quello che la società talvolta definisce imperfezioni, il tema della singolarità, torna fra le righe del De Profundis, opera pubblicata dopo la morte di Wilde. Nella lettera, consegnata poi all’amico e critico letterario Robert Ross, Wilde presagisce quale sarà il suo destino al di fuori dal carcere, il suo futuro fatto di stenti, povertà; la sua sarà la vita di un paria, errabonda. Dal carcere uscirà però con una nuova consapevolezza: “E se la vita sarà per me un problema, e di certo lo è, io non sarò un problema minore per la vita”. “Dobbiamo tenercelo caro il fatto che siamo un problema — ha commentato Rialti — dobbiamo diffidare da chi ce lo vuole risolvere”. Del resto nessuno risolse i problemi, soprattutto economici, di Wilde, che rimase fedele al suo sarcasmo fino alla fine, fino all’ultima stilettata, all’ultima sfida, quella con la carta da parati della stamberga parigina dove esalò il suo ultimo respiro. “Questa carta da parati e io stiamo combattendo — disse Wilde fissando la parete — sino alla morte. Uno di noi due se ne deve andare…”. Se fosse una battaglia per cui valeva la pena di combattere o meno, questo, può saperlo solo Wilde; è certo, però, che a vincerla, a oltre cento anno dalla sua dipartita, è stato “l’alfiere dell’inutile”, “il re in esilio”.