Come può cambiare un paese in (soli) cento anni? Un secolo sembra tanto, e se lo guardiamo secondo la prospettiva di Eric Hobsbawm e dell’accelerazione della storia contemporanea, risulta ancora più lungo e denso rispetto ai processi di trasformazione economica, culturale, socio-politica e tecnologica che al suo interno hanno interessato l’Occidente. Eppure, se come punto di riferimento si prende l’idem sentire di una giovane nazione come la nostra, ecco che la prospettiva muta, e il 1915-2015 può pure risultare un periodo ancora piccolo per potere indossare finalmente e fino in fondo i panni degli italiani, secondo la celebre massima attribuita al d’Azeglio. 



E stando poi ai trascorsi degli ultimi vent’anni, quelli per intenderci della cosiddetta Seconda Repubblica, un secolo sembra ancor meno rispetto ad una linea di approfondimento del senso di appartenenza al Paese, al pieno compimento del suo national building; anzi sembrerebbe addirittura risultare, perlomeno per una parte della Penisola, come un percorso per certi versi a ritroso, quasi di allontanamento. Questo dice il panorama politico odierno, attraversato dai localismi, talvolta xenofobi, sempre antiromani e pure anti-italiani impersonati spesso da (pro)nipoti di soldati morti sul Carso; lo stesso afferma l’antipolitica nel suo complesso, su un punto d’accordo con i succitati “leghismi” (d’antan e dell’ultim’ora), e cioè nell’esprimere la somma, quasi antropologica sfiducia nei confronti delle istituzioni di un Paese e delle sue capacità di costruirle, alimentarle e tutelarle.



Forse proprio per questo, in questi ultimi anni un sentimento piuttosto schizofrenico ci attraversa mentre assistiamo all’impegno di molti onesti e sinceri uomini di Stato, in primis i presidenti della Repubblica, che si sforzano di celebrare i sacri (davvero?) ricorsi dell’Historia Patriae, da quelli risorgimentali a quelli unitari sino a quelli repubblicani, in un clima dove nella migliore delle ipotesi al sentimento di fratellanza nazionale viene tirata la “giacchetta” da qualche parte politica che si ritiene moralmente superiore alle altre e magari pure legittimata come sua unica, genuina interprete. 



Così sarà di nuovo, temo, oggi per il 24 maggio (1915-2015, cifra tonda!). Le avvisaglie ahimè ci sono tutte, vedasi la nuova polemica di ieri proveniente da Bolzano, dove il sindaco pro tempore di tradizione etnica tedesca (ex alpino!) vuole abbassare a mezz’asta quel Tricolore che il presidente del Consiglio ha chiesto di far sventolare su tutto il paese per ricordare l’unica vera, sanguinosa, drammatica vittoria del nostro Paese (e pure se dopo molti l’avrebbero chiamata “dimezzata”). Si tratta di un ritornante, tradizionale segno di disunione — prima di tutto umana — che cela a mala pena un’idea di autonomismo fraintesa se non meramente opportunistica. E verrebbe da dire che non è certo con questo stile che si sprona il governo italiano a tenere in debito conto le ragioni storiche — e soprattutto economicamente attuali — delle regioni autonome a statuto speciale, in tempi di “vacche magre” come il presente.

Il 24 maggio 1915 l’Italia entrava in guerra in un quadro politico interno rovente (tra scontri all’arma bianca degli accaldati interventisti contro i fermi propositi dei neutralisti, le cui fila erano alimentate dai grandi movimenti popolari cattolico e socialista), e pure con un bel colpo di mano istituzionale, contro la “cattolicissima” Austria. E mentre «il Piave mormorava calmo e placido al passaggio dei primi fanti», l’Europa era attraversata dal suo conflitto sino allora più sanguinoso (la prima famosa Blitzkrieg) da quasi un anno, avvalorando tragicamente attraverso i fumi delle trincee l’espressione di cui si sarebbe servito poco più avanti papa Benedetto XV con i capi di Stato europei, quella di “inutile strage”. 

Al popolo italiano la chiamata alle armi fu narrata e imposta come la quarta guerra d’Indipendenza contro il dispotico impero asburgico, il viatico finale per la liberazione di quelle regioni che, con un magnifico e inconsapevole ossimoro catto-laicista nazionalpopolare, furono definite le “terre irredente” (Trentino, Venezia Giulia, Fiume e Dalmazia). Si abbandonava così a un tratto la posizione di neutralità voltando le spalle alla Triplice Alleanza — certo non proprio una manovra ispirata al bon ton diplomatico… —, mentre la propaganda — attraverso proclami, bollettini, giornali, etc. — scaldò le nuove impreparate reclute e tutto il Paese dietro di loro frapponendo un muro di odio con i confinanti abitanti di parlata germanica. I quali ci additarono, non tanto a torto in questo, come traditori dei supremi patti internazionali che spaccavano allora l’Europa in due blocchi.

Certo tutto questo dolore ha lasciato un segno profondo nei sentimenti delle generazioni seguenti la prima guerra mondiale, che spesso videro parenti spararsi l’uno contro l’altro dai rispettivi versanti delle Dolomiti; e non è con ciò che non si voglia riconoscere la sofferenza che ha allontanato le due comunità e successivamente ha fatto vivere loro periodi di grande incertezza e tensione come quello della “guerra dei tralicci”. Che però oggi sono ancora in Italia — e, sia concesso, ne beneficiano —, anche per gli accordi che i rispettivi padri e nonni stabilirono con il loro corregionale Alcide De Gasperi. 

Spiego da tempo ai miei studenti — compagni ideali di coloro ai quali un tempo Federico Chabod e poi Guido Verucci, appena mancato, si rivolgevano così: «Voi siete i miei libri non scritti» — che l’erosione dello Stato-nazione continentale nell’età contemporanea presenta due movimenti contrari e concomitanti, uno centrifugo — l’europeizzazione — e uno centripeto, il localismo, processi che si approssimano alla definizione dovuta a Zygmunt Bauman di “glocalizzazione”. E che dopo il 1945 è definitivamente tramontata nell’orizzonte morale occidentale, soprattutto nei fumi delle città di Londra e Berlino e poi dei camini di Auschwitz, la convinzione che la guerra possa essere “giusta”, o persino produttiva, ma debba avere puramente contenuti autodifensivi (leggi Onu, etc.).

Da questa prospettiva, indubbiamente, l’entusiasmo con cui tanti uomini — anche intellettuali, persino preti a volte — aderirono alla italica chiamata alle armi nell’ultimo rivolo di sentimento risorgimentale che abbia percorso il nostro Paese (di altra pasta fu infatti il seguente mussoliniano “sogno dell’Italia romana”), forse non ben consapevoli del rischio di andare in molti casi a farsi massacrare, appare oggi quanto di più lontano, quasi archeologico, persino quasi imbarazzante per il doveroso rispetto con cui comunque va trattato, parlandosi in alcuni casi di veri e propri eroi. Un rispetto che si deve a maggior ragione alla massa di contadini — si pensi ai famosi “Ragazzi del Novantanove” — che dai lembi più estremi della Penisola furono contingentati sul confine triveneto, facendosi tirare giù come birilli grazie anche alle incerte e pompose strategie di vecchi impreparati generali sabaudi, fino e anche dopo la disfatta di Caporetto.

Eppure quando ancora oggi leggiamo quelle drammatiche, forse magniloquenti per le nostre orecchie, espressioni del napoletano generale Armando Diaz da Vittorio Veneto: «La guerra contro l’Austria-Ungheria che, sotto l’alta guida di S.M. il Re, duce supremo, l’Esercito Italiano, inferiore per numero e per mezzi, iniziò il 24 maggio 1915 e con fede incrollabile e tenace valore condusse ininterrotta ed asprissima per 41 mesi, è vinta […] I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano discese con orgogliosa sicurezza», sinceramente credo che pochi non avvertano un brivido particolare di italianità, lo stesso forse che le persone della mia generazione hanno provato quando il friulano Dino Zoff ha alzato la terza Coppa al cielo.

Con mio padre andavamo al cimitero Vantiniano di Brescia per visitare, tra l’altro, il mausoleo dove vi è una lapide di mio bisnonno Angelo, morto nel 1916 sul fronte italo-austriaco. Mi ero domandato diverse volte cosa ci fosse dietro quella piccola pietra, e concludevamo di solito che si trattava di poveri resti mescolati tratti dalle buche dei cannoni. Poi, qualche anno fa, casualmente mi sono imbattuto in questo pdf online, dove al n. 612 compare il soldato Gheda Angelo del 16° Bersaglieri, caduto il 19 marzo 1916. Così mio padre ha potuto visitare il reale luogo di sepoltura del nonno a cui deve il nome, presso il Tempio Ossario di Timau, ed io ho capito che un pezzetto di quella storia che inizio il 24 maggio 1915 riguarda anche me, e non lo posso dimenticare. Tantomeno oggi.


Dell’autore segnaliamo il libro in uscita in questi giorni, scritto con Federico Robbe, “Andreotti e l’Italia di confine. Lotta politica e nazionalizzazione delle masse”, Guerini & Associati, proprio sui momenti che disegnarono gli accordi tra Roma e le autonomie speciali dell’arco alpino (ndr).