Non perderti, non allontanarti dal pensiero, 
non uscire dal desiderio
tanto da non potervi ritornare
e non provarne

mutuamente tu ed io alcuna pena.

Fa’ che questo non si avveri.
Non lasciarmi immaginare

un tempo

in cui sia fatta aliena,

musa in ansia, fuggitiva

trattenuta appena.

Resta
nella adiacenza dell’umano
se non proprio del suo male



almeno del suo dolore,

ti prego,

forse non dovrei, ti porta

il tuo respiro

dov’è necessario,

lo voglia o non lo voglia, per te andare.

Va’, però non ti eclissare
nel nulla immemoriale,

sia nell’essere certo e incancellabile

che nell’essere tu eri, tu nell’essere sei stata.

(M. Luzi, Non perderti, non allontanarti dal pensiero)



È una poesia che di per sé può essere discorso, lezione. Qualsiasi cosa le si aggiunga può sembrare superflua. 

E questo è il mio primo problema: ogni volta che devo preparare un commento su una poesia o una raccolta che amo particolarmente, ho sempre la sensazione di scomodarla; la immagino insofferente con gli occhi fissi su di me mentre pronuncia gli ultimi versi de “L’uomo e il cammello” di Mark Strand: “hai rovinato tutto/ lo hai rovinato per sempre”. 

Ed è per questo che quando devo parlare di poesia, cercare di spiegare che cosa sia per me, solitamente inizio a dire i versi che mi hanno accompagnata e formata nel corso dei miei trent’anni. 



Certo, può essere necessario un contesto, magari in alcune occasioni occorre raccontare brevemente la situazione, spingersi a dare un’interpretazione, ma bisogna stare attenti a non scavalcare la poesia. Immersa in tante parole a volte rischia di diventare un aspetto tra i tanti.

E sembra un paradosso. Luzi parlava della poesia come di una particolarissima forma linguistica che cerca, nel giro di poche parole, di tenere in sé il mondo (anche se inevitabilmente troppo mondo resta escluso). Siamo nel linguaggio simbolico, la forza di una parola che nominando una cosa riesce ad accogliere una molteplicità, anche nel suo apparente rifiuto. 

E così arrivo al primo quesito: di che cosa parliamo quando parliamo di poesia?

Vorrei avere una risposta univoca e portarla qui con sicurezza. Ma più ci penso e più mi sfugge. Più vado avanti, più si sfaldano le categorie che credevo di avere. 

Vorrei leggervi decine, centinaia di versi meravigliosi che parlano di poesia, ognuno con un proprio valore, una propria immagine: chi la vede in mezzo a una strada a urlare contro la borsa valori del mondo esclamando “qui è il male qui è il male” (B. Patten) e chi “a volte nelle sere” scorge “un volto” che “ci/ guarda dal fondo di uno specchio” e può dire “l’arte deve essere come quello specchio/ che ci rivela la nostra stessa faccia” (L. Borges); o ancora, c’è chi la immagina come un Orfeo al contrario, con la sua Euridice che lo obbliga a guardarla afferrandogli il volto e dicendogli “Dammeli te ne prego/ gli occhi la fronte la bocca fa che un’altra volta mi rapiscano/ uno sguardo ora che mi avvolga per sempre” (R. Browning).

Se poniamo queste e altre immagini una accanto all’altra, ne esce un quadro stupefacente, alla Bosch, un giardino delle delizie, “fuori norma” (E. Panofsky), a cui si trova una chiave chiudendolo: un mondo grigio, informe, pieno di possibilità, che nasconde dall’altro lato della tela il secondo tempo della creazione, un “luogo per perdersi, un labirinto dello sguardo” (M. Certeau).

Ecco, mi sono accorta di non riuscire a rinunciare a nessuna di queste possibilità.

In un apri e chiudi continuo io davvero mi sento come il Pinocchio di Peter Hartling “Cuore di sillabe […] / in frasi saltella la mia vita”.

La poesia diventa, usando le parole di Carlo Ossola, “pensiero capace di abbracciare gli universali della nostra condizione e racchiudere tutta una vita in un verso”. 

E adesso sto guardando il quadro chiuso.

Certo, è un valore altissimo quello che così le si assegna: un verso capace di scavare e pronunciare ciò che ha attorno, in assonanza o dissonanza, e capace poi di continuare al di là della propria contingenza.

Marina Cvetaeva parlando dell’opera universale scriveva che “dopo aver dato tutto al suo secolo e paese, dà ancora una volta a tutti i secoli e a tutti i paesi. Dopo aver rivelato fino al massimo limite il suo secolo e paese, mostra illimitatamente ciò che è il non-tempo e non-luogo: il persempre”.

Si crea un universo di distanze che dialogano tra loro, si illuminano a vicenda.

E arrivo all’ultima domanda: che cosa vuole da noi la poesia?

Per rispondere, possiamo riascoltare alcuni versi di Luzi: “Resta/ nella adiacenza dell’umano/ se non proprio del suo male/ almeno del suo dolore” cercando però — il poeta avverte — di non eclissarsi “nel nulla immemoriale”.

E se questo è ciò che la poesia chiede, mi verrebbe da chiudere con l’ultima parte di “Sono abitatrice delle sabbie” di Cecilia Meireles: 

“Dio ti protegga, Cecilia,/ che tutto è mare e niente più”.


Il testo è la lettura svolta dall’autrice a Genova, in occasione del convegno “Per il dopo, per il principio“.