L’intervento del Santo Padre all’udienza generale di ieri ha visto anche l’espressione di una citazione letteraria. “In Italia avete un capolavoro sul fidanzamento, non lasciatelo da parte, i giovani debbono leggerlo” ha affermato Papa Francesco parlando dei Promessi sposi e aggiungendo: “È un capolavoro dove si racconta la storia dei fidanzati che hanno subito tanto dolore. Non lasciate da parte questo capolavoro sul fidanzamento, andate avanti a leggerlo e vedrete la sofferenza e anche la fedeltà di questi fidanzati”. 



L’intervento, come sempre il mercoledì, aveva un carattere catechetico e riguardava il tema del fidanzamento e del matrimonio, che da alcune settimane il Papa sta portando avanti nelle sue udienze generali, eppure lo si può anche considerare come un’annotazione di critica o didattica letteraria, magari implicita e involontaria. 



Devo infatti fare una confessione: sono un lettore superficiale. Tutte le volte che ho letto I promessi sposi (e non sono neppure poche) ho pensato a tante cose — allo splendido stile narrativo, all’efficacia manzoniana nel ritrarre luoghi e personaggi, alla rivoluzionaria novità linguistica apportata dal romanzo, alla sua perfetta coerenza storica, ai significati simbolici, teologici, psicologici dei protagonisti, a mille altri spunti letterari — ma mai, lo confesso, che fosse un romanzo sul fidanzamento. Sull’amore sì, sul matrimonio e non matrimonio certo; sul fidanzamento no. Quando ho letto ciò che ha detto Papa Francesco, sono caduto dalle nuvole: I promessi sposi sono esattamente, propriamente e semplicemente questo: un romanzo sul fidanzamento. E vedo solo adesso che noi italiani abbiamo prodotto forse il miglior romanzo su questo argomento al mondo, un autentico capolavoro.



Lasciando da parte l’opinione del premier Renzi, di qualche tempo fa, sull’eliminazione dell’opera del Manzoni dai programmi scolastici (oggi più che mai suona bislacca), la citazione del Papa è anche, come dicevo, una splendida annotazione di critica letteraria perché indica, con semplicità inaudita, come è probabilmente più utile leggere le opere letterarie, classiche e moderne: stando cioè di fronte al cuore del messaggio che recano, al nucleo fondante di ciò che l’autore, attraverso i secoli, tenta di suggerirci ancora oggi. 

Mi viene in mente, ad esempio, che si potrebbe leggere Petrarca per quello che effettivamente dice, cioè il dramma della sua anima di fronte all’apparizione e poi alla scomparsa dell’oggetto del suo desiderio d’amore (Laura), e non seguendo estenuanti disquisizioni sulla forma del sonetto; che si potrebbe leggere l’opera di Leopardi come la documentazione dell’inesauribile domanda d’infinito di un uomo pur conscio del dramma della vita e della sua incompiutezza, non con astratte teorizzazioni sul preconcetto filosofico del “pessimismo leopardiano”; e così per altri mille esempi. 

La grande difficoltà della proposta e dell’insegnamento della letteratura a scuola e del rapporto con i classici che hanno fondato la nostra identità (in fondo, se voglio sapere cos’è un italiano, cosa c’è di meglio di mettere insieme i caratteri dipinti da Alessandro Manzoni nel suo romanzo-capolavoro?) in cui si trovano tanti insegnanti, difficoltà che è giunta a far proporre a un capo del governo di eliminarli dalla scuola, potrebbe essere affrontata anche a iniziare dalla citazione fatta dal Papa. Iniziando così a pensare che non leggiamo un classico per ricostruire uno stile o un contesto letterario storico, ma perché può ancora dire qualcosa di buono a noi, oggi.

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