Il legame tra psicoanalisi e filosofia, nonostante le burrasche che ne scandiscono la storia, manifesta senza alcun dubbio la fecondità dell’incontro tra differenti saperi che solo quando non temono la contaminazione possono aiutare l’uomo a comprendere più a fondo la sua ricerca di senso. Nell’epoca della frammentazione e dell’autoreferenzialità di discipline maggiormente preoccupate di difendere gli esiti conseguiti piuttosto che aprirli a quanto prodotto in altri ambiti, non si può che accogliere ed apprezzare chiunque abbia considerato o consideri i pur legittimi confini tra le regioni del sapere non come barriere o insuperabili muri, ma come soglie, frontiere, dogane che permettono ingressi e favoriscono scambi.



L’opera di Jacques Derrida mostra fin dagli esordi la presenza di istanze e domande provenienti dai territori della psicoanalisi e si può anzi affermare con relativa certezza che, oltre ai testi espressamente dedicati a Freud, non c’è testo di Derrida in cui non compaia almeno un riferimento al fondatore della psicoanalisi. Ricostruire l’intera storia del rapporto tra il filosofo algerino e la psicoanalisi (Freud, anzitutto, ma anche Nicolas Abraham e Maria Torok e, soprattutto, il problematico legame con Jacques Lacan) è un compito che attende ancora di essere svolto, ma alcune intuizioni presenti nelle prime opere di Derrida verranno mantenute e, per così dire, acquisite lungo l’intero percorso intellettuale del filosofo che ha dedicato all’opera freudiana un’attenzione profonda, pari all’ascolto di filosofi come Platone o Hegel. 



Nel 1966, mentre sta elaborando il suo pensiero, Derrida pubblica su Tel Quel, la rivista parigina che ospitava le menti più brillanti dell’epoca, uno studio dal titolo Freud e la scena della scrittura che a cinquant’anni dalla prima apparizione viene ancora considerato come un punto di riferimento non soltanto per la comprensione di quella nebulosa che un po’ affrettatamente si è soliti chiamare “decostruzione”, ma che, più ancora, costituisce un’insuperata lezione di “metodo” rispetto ad una pratica della lettura che deriva il senso di un testo a partire dagli “effetti” che produce sul sapere piuttosto che inseguendo ricostruzioni storico-filologiche che vorrebbero risalire alla presunta intenzione dell’autore. 



Il saggio apparso su Tel Quel (a seguito del quale Roland Barthes scriverà a Derrida: «Sempre di più, cosa faremmo senza di lei?»), che faceva seguito ad una conferenza pronunciata nel mese di marzo all’Istituto di psicoanalisi di Parigi davanti a non più di venti persone, prende le mosse da due testi poco conosciuti di Freud scritti a distanza di trent’anni uno dall’altro: il Progetto di una psicologia (1895) e la Nota sul “notes magico”. La lettura di Derrida mostra in che modo l’inconscio possa essere considerato come una scrittura geroglifica, non verbale e non linguistica, le cui tracce non rimandano a qualcosa che non è più presente, ma che non è mai stato presente: il testo inconscio trascrive e riproduce un senso la cui fonte è inattingibile.      

Il testo dedicato al “notes magico” è particolarmente illuminante: Freud prende spunto da uno strumento presente sul mercato con il nome, appunto, di “notes magico” e che consiste in una tavoletta di cera ricoperta da un foglio di celluloide su cui è possibile “incidere” una scrittura che si cancellerà non appena il foglio verrà sollevato e staccato dalla tavoletta di cera a cui aderisce. Ma le tracce che scompaiono sul foglio di celluloide rimangono, anche se non sono visibili, sulla tavoletta di cera sottostante. Secondo Freud, l’apparecchio psichico si comporta nello stesso modo del “notes magico”: riceve tracce senza mantenerle e le mantiene mentre le cancella, attraverso un gioco pressoché infinito di rimandi che mette in discussione le pretese di trasparenza, di chiarezza che sono il fondamento del pensiero metafisico. 

Anche Freud, secondo Derrida, non riesce a pensare fino in fondo alle implicazioni delle sue fondamentali scoperte, ma rimane indiscutibile che la psicoanalisi permette di pensare ad una apertura del pensiero filosofico al di là dei confini stabiliti dalla sua lunga tradizione. Per Derrida, è fondamentale lavorare sul concetto freudiano di Nachträglichkeit, una parola tedesca che è difficile tradurre in altre lingue e che indica la riscrittura della memoria del passato in funzione di bisogni ed esperienze fatte in altri momenti della vita: nozione complessa che indica, come scrive il filosofo, che «il senso non è mai stato presente, ed il cui presente significato è sempre ricostruito a posteriori (nachträglich), in un secondo momento, in modo supplementare». 

Il ritardo che costituisce l’apparato psichico, in altri termini, dichiara che “altro” ci costituisce e struttura nel profondo e che questa alterità non riusciamo ad afferrarla e a farla nostra: ne inseguiamo le tracce attraverso i racconti, le narrazioni che sono la nostra identità e la nostra storia. Un’identità e una storia che sfugge a se stessa ed è, ad un tempo, la fatica del nostro esistere e il mistero di un’origine che non può essere raggiunta ma che pure agita e orienta il nostro agire. 


L’articolo anticipa la relazione dell’autore in occasione dell’incontro “Freud e la scena della scrittura”, quinto e ultimo appuntamento (8 maggio) di un ciclo di letture organizzate da Prologos. Il ciclo ha per titolo “Derrida lettore dei filosofi. L’evento del testo”. Dettagli e date su www.prologos.it