Agostino continua in qualche modo a precederci. E ogni volta che ce ne accorgiamo restiamo stupiti e insieme coinvolti. Non si tratta solo del fatto che un autore di tale grandezza rappresenti una fonte essenziale cui attingere per capire la genesi di parole e concetti che hanno segnato un’intera tradizione di pensiero, sino a noi (come poter comprendere cosa sia “libertà” o “storia”,” coscienza” o “soggettività”, “desiderio” o “amore”, per dirne solo alcuni, senza la compagnia pensante dell’Ipponate?). La precedenza è più radicale, e dipende dal fatto che molti dei nostri percorsi di ricerca si trovano a fare i conti con problemi e interrogativi che Agostino ha attraversato, patito e illuminato con la sua esperienza personale, sia pure nella grande distanza dei contesti storici e con tutte le differenze di linguaggio e di mentalità. 



È nell’ordine della coscienza di sé e del mondo, e nella volontà di decifrare il mistero del reale, che Agostino costantemente ci precede. E non di rado può capitare di trovarlo ad attenderci lì dove noi, moderni e post-moderni, pensavamo di essere arrivati per la prima volta. E questo non perché si debba forzatamente ricondurre al suo pensiero i nostri problemi, ma perché al contrario Agostino è andato così a fondo delle sue particolari questioni — e della questione più radicale di tutte, che era il suo stesso “io” — da poter intercettare e illuminare dal quel punto il fondo delle nostre questioni.  



Una nuova testimonianza di questa strana, permanente “precedenza” di Agostino ci è offerta dal saggio di uno studioso tedesco, Friedrich Wilhelm von Herrmann, sulla fenomenologia agostiniana del tempo, appena tradotto in italiano. Si tratta di uno dei temi più celebri del pensiero dell’Ipponate, ma anche tra quelli che sono dati più facilmente per acquisiti. Nell’XI libro delle Confessioni (scritte tra il 397 e il 401) il problema del tempo nasce all’interno di un interrogativo squisitamente teologico ed esegetico, a partire dalla spiegazione da dare al primo versetto del Genesi («In principio Dio creò il cielo e la terra»). Cosa può voler dire per Dio stesso “iniziare” qualcosa? Non è contraddittorio il fatto che nell’Essere eterno si possa pensare ad un’azione prima della quale Dio non facesse nulla? Bisogna dunque partire dall’eternità divina per capire che il tempo non è qualcosa al cui interno Dio agisce, ma è qualcosa che è creato da Dio stesso insieme alla creazione. L’origine del tempo affonda per così dire nel mistero dell’eterno principio, che non è solo un “inizio”, ma è la fonte inesauribile di tutto. 



Ma Agostino non si ferma qui, a contemplare cioè il rapporto tra l’eternità ineffabile e il tempo misurabile; il suo gesto modernissimo sta tutto nella sua indagine sul tempo a partire dall’esperienza che di esso noi facciamo quotidianamente. E questo con un preciso intento: non tanto quello di cambiare piano o mutare registro, abbandonando cioè l’eterno e concentrandosi sul temporale, ma piuttosto quello di ritrovare nel temporale la traccia della sua origine, non come un presupposto dottrinale ma come ciò che solo può spiegare e rendere percepibile il tempo della nostra vita e del mondo.

Si ricorderà il celebre avvio del problema: «Che cos’è dunque il tempo? Se nessuno mi interroga lo so; se volessi spiegarlo a chi mi interroga non lo so» (Conf. XI, 14.17). Il tempo è qualcosa con cui noi abbiamo costantemente a che fare nella nostra esperienza quotidiana, e che continuiamo sempre a misurare, come quando affermiamo di impiegare, trascorrere, perdere, finanche ingannare il tempo… Eppure il tempo, a rigore, non esiste: il passato non esiste più, il futuro non esiste ancora, e lo stesso presente, proprio nel momento in cui lo nominiamo o lo determiniamo, è già transitato: esso è, appunto, un luogo di transito incessante e inarrestabile del futuro nel passato. Ecco il paradosso: noi dunque viviamo e misuriamo qualcosa che non c’è: eppure evidentemente lo misuriamo e ci viviamo dentro. Tutto sta nel capire che tipo di “essere” ha il tempo, in modo da poter essere vissuto e misurato. Il suo essere per Agostino sta nel “presente” del nostro animus («È in te, spirito mio, che misuro il tempo», Conf. XI, 27.36), come una dimensione costitutiva del nostro io cosciente, che da parte sua “esiste” in quanto si “estende” o meglio si “distende” nella memoria (passato), nell’attesa (futuro) e nell’attenzione (presente). Il tempo come distentio animi.

La domanda “che cos’è il tempo?” si trasforma così nella domanda “chi è il tempo?”. Il nostro “spirito” è tale da portare in sé i tempi, perché essi sono il modo in cui “accadono” e “trascorrono” le cose lasciando traccia in esso. Non il semplice movimento impersonale della natura, ma un movimento “misurato” dall’io e che nell’io diviene, molto più che passaggio, una vera e propria “storia” (cioè un tempo sensato o direzionato). Qui si comprende che l’eterno non è solo l’opposto, ma l’incrocio del tempo, perché in ogni istante presente ciò che sarebbe destinato inevitabilmente al niente, al dileguarsi nel nulla, viene trattenuto nella memoria e riaperto nell’attesa. Un tempo che, paradossalmente, “permane” nel suo continuo “passare”.

Nella lettura di von Herrmann la ricerca agostiniana sul tempo ha un carattere “fenomenologico” innanzitutto nel senso che essa si presenta come la descrizione precisa di un dato dell’esperienza, còlto nel suo genuino manifestarsi nel corso dell’esperienza stessa. Ma per lo studioso tedesco significa anche ritrovare in Agostino un momento “inaugurale” della prospettiva sul tempo aperta dai due più importanti fenomenologi del Novecento, vale a dire Edmund Husserl e Martin Heidegger. 

Su questa base diviene pienamente legittimo, e forse addirittura necessario, ritrovare le tracce agostiniane, non solo come una fonte storica ma anche e soprattutto come una sorta di sorgente, o di faglia, presente nel profondo della filosofia del tempo dei due autori novecenteschi. L’interrogazione agostiniana sulla natura del tempo si rivela allora come la matrice problematica grazie alla quale sia Husserl che Heidegger potranno impostare e sviluppare le loro rispettive ricerche, pur in tutta la differenza che sussiste tra di loro e anche rispetto ad Agostino.

Il tempo si determina come “problema” nella misura in cui l’uomo è un ente che domanda, cioè chiede del nesso del suo presente — del suo “ora” — con il suo passato e il suo futuro. Comune ai tre “fenomenologi”, è appunto la scoperta che il tempo può emergere nel suo essere peculiare solo nella vita dello “spirito” (Husserl dirà nella pura coscienza soggettiva, e Heidegger parlerà dell’esserci, ossia dell’ente ek-sistente) che, nel presente, ricorda e attende. 

Ma Agostino continua a “inquietare” segretamente l’interpretazione novecentesca della temporalità dell’essere umano. Di fronte alla temporalità husserliana, vista come una dimensione totalmente immanente alla coscienza (intendendo per coscienza il puro regno dei nostri vissuti interiori a cui si può “ridurre” il mondo), o a quella heideggeriana, vista come una dimensione radicalmente trascendente rispetto all’uomo (inteso appunto come l’ente che trascende sempre nel “niente”), Agostino sta a ricordarci che il tempo è il modo in cui l’animo umano vive il suo rapporto con l’essere come un problema aperto, addirittura un «enigma», come pure lo chiama. E questo non nel senso di un’oscurità inesplicabile, ma come invito a comprendere che il tempo lo si spiega in quanto lo si vive; e lo si vive rendendosi conto che il nostro “io” è il luogo in cui l’essere finito del mondo, il suo passare irreversibile, possiede un senso presente, una vera e propria «presenza del presente» che lo custodisce e gli permette ogni volta – ogni istante del tempo – di vivere il suo nesso con il prima e con il dopo. 

La traccia dell’eterno (o meglio, dell’«eterno presente») è forse proprio questa dimensione di memoria e di attesa che ogni istante presente porta con sé.


Friedrich-Wilhelm von Herrmann, “Agostino e la domanda fenomenologica sul tempo”, traduzione italiana di D. Colantuono, a cura di C. Esposito, Edizioni di Pagina, Bari 2015.