In relazione all’imminente enciclica papale sull’ambiente, l’argomento consumo e crescita ad esso strettamente correlata, già oggetto di analisi, convegni e dibattiti in questo periodo di crisi e globalizzazione, probabilmente sarà nuovamente al centro del dibattito economico e sociale. La domanda “può esserci la crescita continua senza il consumo?” è quindi pertinente ed invita alla riflessione.



L’indagine conoscitiva in merito alla disamina ed approfondimento del tema è stabilire se il problema sia prima di tutto antropologico e non economico (Evangelii Gaudium, 55); se così fosse — e questa è la convinzione di ogni cattolico — l’analisi deve essere sociologica. Il filosofo ed antropologo francese René Girard ha affrontato la complessità della condizione umana, condizione sempre soggetta a dinamiche antropologiche conflittuali. E sue teorie possono senz’altro spiegare alcuni fenomeni a fare ulteriormente riflettere e far elaborare il nostro pensiero.



Innanzi tutto stiamo vivendo per la prima volta nella storia in una situazione unica: questa società non può essere messa a confronto con altre perché per la prima volta vi è una società che comprende l’intero pianeta, la cultura è ormai globalizzata. E questa globalizzazione è avvenuta lentamente partendo dalle scoperte geografiche del XV e XVI Secolo. Oggi non siamo al punto terminale dell’evoluzione ideologica così come concepito da F. Fukuyama. Le ideologie non sono violente in sé e per sé, è l’uomo ad essere violento. Le ideologie sono il “lieto fine” mistico della nostra storia di persecuzione. Il meccanismo del capro espiatorio (concetto elaborato da R. Girard) offre una chiusura sistematica che permette al gruppo sociale di rimettersi in funzione, di ricominciare il ciclo e di continuare ad ignorare il vero significato di quella chiusura sistematica. Vale a dire il credere alla colpevolezza del capro espiatorio, del nemico espulso, del male mondato.



Una società è funzionale quando le sue istituzioni funzionano senza essere costantemente disgregate dalla violenza. In particolare vi sono le società definite mediante il concetto del dharma, che significa fondamentalmente la separazione netta in caste. Cioè definisce gli obblighi di ciascun individuo verso la casta di appartenenza, il costume sociale, le leggi civili, le leggi sacre. La società quindi è stabile, ognuno fa quello che si aspetta che faccia o che gli viene detto di fare. La mediazione esterna è di tipo gerarchico, tipico delle culture tradizionali.Vedasi ad esempio la struttura sociale-religiosa dell’ India o il periodo medioevale ove la separazione della società e la struttura sociale gerarchica feudale si contestualizzava nella struttura gerarchica della Chiesa. Nonostante questo, l’ordine politico e la legge non potevano sempre controllare l’ordine dato. La costante minaccia di scarsità e di insufficienza di beni alimentari facevano scatenare crisi mimetiche e destabilizzare l’ordine sociale. Teoria confermata anche da Paul Dumouchel, che ha evidenziato come il sistema giuridico è in grado di tenere sotto controllo episodi di violenza marginale o sporadica, ma si dimostra assolutamente impotente quando la violenza si espande oltre certi limiti e pertanto l’istituzione legale ha un potere limitato nella prevenzione della violenza.

L’evoluzione della società fra il Rinascimento e l’Illuminismo e la stabilità che abbiamo oggi, ancorché sia scomparso il dharma di concezione medievale, è basata non più su strutture socio-simbolistiche-gerarchiche, ma sul principio cristiano dell’individuo capace di dominare i propri impulsi violenti. La società contemporanea è dominata dalla mediazione interna proprio dal principio cristiano. Le culture cristiano-protestanti hanno escogitato altre forme per “controllare” la violenza con forme diverse di dharma. In particolare con l’affermazione della “distanza sociale” (tematica approfondita da sociologo Emile Durkheim). La distanza sociale si è consolidata mediante la creazione della divisione del lavoro: è un modo di controllare le rivalità mimetiche. La divisione del lavoro infatti, lascia spazio all’individuo — almeno in teoria — anche se il mercato può costringere a fare certe scelte, piuttosto che altre.

R. Girard evidenzia come l’organizzazione del lavoro assume particolare rilievo nel mantenimento della stabilità sociale nelle società capitalistica avanzate come gli Stati Uniti. La teoria che la divisione del lavoro può tenere sotto controllo la rivalità mimetica non può essere confermata perché la questione è molto più complessa, comunque la mobilità sociale, già molto presente negli Stati Uniti, è in costante crescita nel resto del mondo, anche se vi sono fasi di incertezza e di rigidità. L’ingiustizia strutturale — attualmente aumentata, a seguito anche delle politiche monetarie espansive, come confermano i dati sulla concentrazione della ricchezza e l’indice Gini a livello globale e di ogni singolo paese — comunque rimane presente con il suo potenziale di aggressività e deve essere costantemente smussata dal mercato che richiede una più ampia circolazione di capitale umano e, soprattutto, dall’etica cristiana. La mobilità sociale permette, in definitiva, di controllare la rivalità mimetica fra individui. L’economia occidentale post rivoluzione industriale odierna è la prima civiltà che attraverso la competizione economica e la fluidità sociale, che ne consegue, usa positivamente la rivalità mimetica, cioè la rivalità fra individui ove vi è sempre un soggetto che desidera essere come un altro (il modello) e avere — conseguentemente — i suoi oggetti e la sua posizione sociale (il concetto di rivalità mimetica è il cardine del pensiero di Girard). Il motivo è fondato sulla fiducia delle nostre capacità, sulle regole morali (derivanti dal cristianesimo) sulla certezza del diritto economico ed ovviamente della sua applicazione. Rilevante rimane comunque il richiamo alle regole morali ed etiche che devono essere nuovamente fondanti contro il crescente individualismo che disaggrega la società.

La globalizzazione economica ha un effetto positivo sulle dinamiche sociali perché è portatrice di regole. E’ indubbio però che non vi sono certezze assolute; sono troppi i fattori che non conosciamo. Vi sono ancora molti elementi di instabilità e di ingiustizia, ma vi sono anche alcuni elementi di stabilità. Girard evidenzia inoltre che ogni individuo necessita di centri di stabilità, ognuno funzionante secondo il proprio dharma ed estremamente importanti per il nostro modo di vivere. Ed ognuno ha il terrore di perdere quei centri, principalmente per ragioni egoistiche e materiali. L’egoismo sta provocando anche un danno ecologico al pianeta che sarà fatale in un prossimo futuro, non conosciamo però dove, come, quando.

L’economia globale è l’economia dei consumi che è una forma di diffusione delle rivalità e può ridurne le potenzialità di conflitto. Mettendo a disposizione di tutti gli stessi beni, oggetti, merci, servizi, la società moderna riduce le opportunità di conflitto e la rivalità fra individui (viene quindi valorizzata l’intuizione deldolce commercio di Montesquieu). Il problema è che se si spinge all’estremo questa prospettiva la gente finisce con il perdere interesse per questi oggetti, tutti identici ed universalmente disponibili e quindi meno desiderabili. Come tutte le soluzioni sacrificali anche la società odierna ha bisogno di reinventarsi periodicamente, ciclicamente e deve quindi poter disporre di merci sempre nuove per poter sopravvivere, inducendo — conseguentemente — ad un consumismo compulsivo. Tuttavia, più i rimedi sacrificali diventano disponibili più perdono di efficacia. Lo shopping pertanto è puramente distruttivo, un’immagine meravigliosa di pura perdita. Questo quindi è il problema odierno: la società dei consumi ha bisogno di distruggere risorse per poter sopravvivere, ma questo meccanismo inizia a manifestare le proprie debolezze. La conclusione è che non vi può essere crescita continua senza consumo.

La società del consumo, portata all’estremo, ci trasforma tutti in mistici, nel senso che ci dimostra come la merce, gli oggetti, non possono mai soddisfare i nostri desideri. E se da una parte questa consapevolezza ci può portare ad impegnarci in ogni sorta di attività senza senso, dall’altra ci dà coscienza del fatto che abbiamo bisogno di qualcosa di interamente diverso, qualcosa che la società dei consumi non ci può dare (concetto elaborato dall’epistemologo Jean Pierre Dupuy). L’individualismo moderno è anche molto ambiguo, viviamo in un mondo dove l’aver sempre meno bisogni lascia spazio all’avere sempre più desideri il che può essere un fatto positivo e negativo. Questo è vero anche per la soggettività moderna. Oggi giorno una persona ha realmente la possibilità di crearsi una vera autonomia, di farsi opinioni personali. 

Purtroppo più comunemente accade che tali possibilità vengano scartate in favore di una falsa individualità di moda: nessuno al giorno d’oggi pensa di essere convenzionale, comune, ognuno si sente più originale di quelli che gli stanno intorno, ecco quindi apparire — a seguito delle nuove tecnologie digitali — realtà virtuali quali Facebook e altri social network ove tutto oramai è un autoincensarsi di immagini, frasi, pensieri da condividere con gli “amici” virtuali. Si pensa di essere originali e appartenenti ad una comunità fraterna: in realtà si ricerca l’affermazione della propria identità, si soffre di solitudine, ma si è infine più individualisti ed egoisti; e si perde il senso comunitario di sussidiarietà e solidarietà.

La dinamica della ricerca di differenziazione ovvero la dinamica del desiderio di indifferenziazione non si blocca all’oggetto, al consumo, va oltre, al non oggetto quale lo snobismo, l’indifferenza, l’estetica minimalistica e anoressica

La società dei consumi è diventata un semplice scambio di segni piuttosto che di oggetti materiali. Il mondo occidentale tende quindi al minimalismo, perché un mondo in cui il consumo è segno di ricchezza non attira più nessuno, quindi uno deve avere i jeans con i buchi o andare in giro sporco, o sembrare sovversivo per essere veramente cool. Il problema che ormai tutti usano gli stessi trucchi e quindi si finisce per essere nuovamente uguali. Le economie dei paesi quali i Brics e quelli in via di sviluppo tendono invece ad un consumismo opulento, vogliono essere, per desiderio mimetico, come le economie occidentali: ricchezza, benessere, arte e cultura devono essere presenti ed enfatizzate, in particolari per i nuovi ricchi, si devono possedere beni di lusso, anche alimentari.

Se riprendiamo il pensiero di Monesquieu e del dolce commercio — e cioè che lo scambio dei beni mitiga i conflitti sociali — non possiamo non evidenziare la funzione indispensabile della moneta e del credito. Questa peculiarità alla circolazione della moneta e la sua correlazione inversa alle tensioni sociali, determinate dall’aumento del desiderio mimetico, e all’estremo, di un conflitto mimetico, possono essere una chiave di lettura antropologica delle attuali politiche monetarie espansive. Infatti, la relatività negli ultimi venti anni della morale e quindi dell’etica, ha edulcorato le ideologie sociali progressiste o conservatrici, che si esprimevano in movimenti, con la naturale selezione di una classe politica. Nei fatti si è consegnato ai tecnocrati plutocratici la gestione delle tensioni sociali. Tensioni, invece — una volta — smussate ed evitate dalle élites con politiche rivolte al bene comune della società, con effetti più o meno pregnanti nella redistribuzione dei redditi e della ricchezza.

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