“Non sono degno di parlare solennemente di Adolf Hitler. (…) Era un guerriero, un pioniere dell’umanità, e un apostolo del vangelo del diritto di tutte le nazioni. Era una figura di riformatore di altissimo rango…”. Questa apologia del Führer non è stata vergata da un ex gerarca del terzo Reich, né rappresenta il vaniloquio farneticante di qualche naziskin dell’ultima generazione. Essa costituisce invece il necrologio che Knut Hamsun — lo scrittore norvegese insignito nel 1920 del premio Nobel per la letteratura — scrisse nel 1945 subito dopo il suicidio del dittatore, quantunque il suo Paese fosse stato invaso dai tedeschi (di cui anzi egli aveva approvato nel 1940 l’occupazione) e nonostante durante gli ultimi anni di guerra Hamsun fosse venuto a conoscenza del martirio di tanti compatrioti, eliminati dai nazisti perché contrari al disegno imperialistico pangermanico, del quale invece lui era fautore, nell’illusione che una Norvegia alleata di Hitler avrebbe potuto ottenere vantaggi in un’Europa all’insegna della croce uncinata.
Ma come è concepibile che il nazionalista Hamsun, il poeta Hamsun, lo scrittore norvegese più celebrato e letto del novecento abbia potuto schierarsi dalla parte dei nemici del proprio popolo? Ovvero — ed è quanto si chiese Per Olov Enquist nell’introduzione alla sua sceneggiatura scritta per il film Hamsun di Jan Troell, presentato al Festival di Venezia 1996 — come fa “un eroe nazionale a diventare traditore della patria?”. Non basta certo a giustificare un’adesione acritica alla follia nazista l’avversione viscerale di questo geniale anarcoide individualista nei confronti della democrazia e del comunismo. Né l’ostilità verso l’Inghilterra di cui Hamsun paventava l’egemonia sul vecchio continente.
Forse il consenso tributato ad Hitler fece leva su una fascinazione legata a certe visioni tardoromantiche, quali poté indurre una lettura distorta del superuomo di Nietzsche. Sicuramente Hamsun non fu in grado di cogliere i fatti tragici della guerra con vero acume politico, ma nella politica più bieca si invischiò facendosi usare — lui che aborriva ogni forma di servitù – dai collaborazionisti. Resta che il nazionalsocialismo apparve ai suoi occhi come un’utopia d’Europa in cui credere e da difendere con l’arma più invasiva, quella della parola.
Ed è ancora attraverso la parola che Hamsun novantenne, prima di tacere definitivamente, tenta una difesa nel suo ultimo libro-confessione, Per i sentieri dove cresce l’erba (Fazi Editore), dove in forma di diario vengono narrati i giorni del declino e le fasi del clamoroso procedimento giudiziario subito dal “traditore” dopo la fine della seconda guerra mondiale e conclusosi con una condanna mite: l’imposizione di una pena pecuniaria, simbolico ma umiliante castigo, a espiazione forse solo di un fatale travisamento, di un abbaglio, tragico in primo luogo per Hamsun, smarrito dietro il sogno di una società mondiale pangermanica nella quale, a suo dire, negli anni Quaranta in Norvegia “tutti credevamo, in misura diversa, ma ci credevamo tutti”.
Ma non sono certamente le pagine in cui lo scrittore tenta un’impossibile difesa a costituire il pregio del diario. Pagine amare in cui questo grande reazionario, incapace di mettere in discussione davvero le proprie convinzioni, giunge finanche ad accusare chi gli stava intorno di non aver fatto nulla per illuminarlo sui propri errori (“E nessuno mi disse allora che quanto andavo scrivendo era sbagliato, nessuno, in tutto il Paese”).
Il libro non si limita esclusivamente a consegnarci l’autoritratto impietoso d’un intellettuale chiuso nella propria torre d’avorio, sordo come Hamsun fu — sia fisicamente che emblematicamente — nella sua incapacità di percepire il grido di dolore dei norvegesi oppressi. Per i sentieri dove cresce l’erba è anche e soprattutto uno straordinario testo poetico in forma di prosa sull’ultimo tratto della nostra parabola esistenziale: sulla vecchiaia non tanto come venir meno di slanci, desideri o forze vitali, ma prima ancora come rarefazione d’ogni velleità narcisistica e pacata consapevolezza della umana finitudine. Il critico Filippo La Porta, sottolineando che l’insofferente nomadismo dello scrittore in tale opera sembra finalmente placarsi, accenna al taoismo. In effetti, man mano che questo bellissimo diario procede, la cupezza del lamento si stempera in una sorta di serena accettazione, che è pietas e disincanto, come testimoniano queste commosse parole, insieme di congedo e viatico. “Siamo tutti in viaggio verso un paese che di sicuro raggiungeremo. Fretta non ne abbiamo, e ci fermiamo a raccogliere le casualità che ci capita di trovare per la strada. Solo gli stolti ridono in faccia al cielo e battezzano quelle casualità con nomi altisonanti”.