Il contrabbando di opere d’arte provenienti dai saccheggi e dalle distruzioni dei siti archeologici e dei musei in Siria, Iraq, Libia, Egitto, per mano degli integralisti islamici, è un traffico di cui non si parla quasi mai. Non si fa vedere, non dà notizia di se stesso, non finisce in televisione. Per questo, è un traffico molto rigoglioso. Mentre il commercio della droga e del petrolio o i rapimenti possono creare allarme sociale, il contrabbando dei manufatti provenienti dalle razzie o dagli scavi clandestini passa sotto silenzio. Esistono due forme di mercato nero: uno dei poveri ed uno dei ricchi.
Quello dei poveri, di coloro che vogliono spendere poco per avere statuette funerarie egizie, lacerti di mummie o monili, passa da una compravendita libera su Facebook ed eBay; si fa presto ad entrare in contatto con loro, tramite dei nickname arabi: dopo la diffidenza iniziale, ti vengono spediti video, fotografie, illustrazioni dei reperti e poi contratti il prezzo; dopo averlo fatto, si passa su skype per un accordo più mirato; terzo e ultimo passaggio: carica del reperto via eBay o altri sistemi di acquisto e spedizione. E’ un traffico tentacolare, che va dal gruzzolo di sesterzi romani ad una testina del dio egizio Ammone fino a statuette raffiguranti Ptah o Osiride. eBay non controlla (né avrebbe competenze specifiche per farlo) e molte agenzie di spedizione non richiedono la natura dell’oggetto spedito. La trattazione è dunque arrivata a destinazione. Tu volevi una statua del dio Ptah, hai sborsato quasi 2mila dollari e l’hai avuto. E loro, i trafficanti, affiliati al terrorismo, hanno avuto i tuoi soldi.
Ma esiste anche un mercato dei ricchi, che ha un percorso molto più difficile e ha un giro d’affari di più di 2 miliardi di euro l’anno.
Grazie ai servizi segreti l’ho scoperto. Eccolo qui. I tombaroli e i ladri, nei paesi in guerra o crisi, razziano con bulldozer e pale le aree archeologiche. Gli importanti siti egiziani di el Sheikh ‘Abadah, di el Hibeh, di Beni Suef, Abu Rawash, Saqqara, o le città mesopotamiche di Ninive, Hatra, Palmira, Aleppo, Nimrud, sembrano formaggi gruviera da quanti buchi clandestini ci sono.
I reperti vengono poi raccolti dai trafficanti e portati a Beirut, in Libano, che è il vero centro di smistamento. Dal porto partono un milione di container su nave l’anno, cioè 2.740 al giorno. Ci sono 45 agenzie di spedizione. I controlli sono saltuari: passa cioè ogni cosa.
Navi e camion contengono materiali vari: pellame, abbigliamento, prodotti chimici, macchinari agricoli, bancali di frutta secca, oreficeria. Ed è nei doppi fondi di container e tir che vengono messe le antichità.
Le dogane portuali sono colabrodi, ispezionano a campione, dunque vengono facilmente superate. Ma soprattutto i tir la fanno franca: molti di essi utilizzano il Carnet Tir, un documento internazionale che consente di avere controlli solo all’inizio del viaggio e a destinazione. Per i trafficanti è il massimo: che controlli ci saranno mai in Siria, Iran e Libano? I camion trasportano regolarmente il materiale dichiarato sulla bolla: in più nascondono la refurtiva.
Da Beirut passano per i Balcani, debolissimi nella vigilanza, e nel percorso scaricano le opere saccheggiate. Gli spalloni le prendono e le portano in Svizzera, dove la legge sul mercato nero è morbida. Compiacenti storici dell’arte confezionano certificati di garanzia e provenienza per superare il reato di ricettazione attivo in molti Stati. Così le opere d’arte, da illegali, diventano smerciabili, si impennano nel prezzo, e finiscono nelle case d’asta londinesi, nei facoltosi musei americani e dagli antiquari. Anche i musei e le case d’asta, i cui nomi sono stati fatti alle autorità, diventano così insospettabili e indiretti finanziatori del contrabbando e del terrore.