Che Marco Santagata sia uno dei maggiori dantisti italiani, è un dato di fatto: lo testimoniano, oltre alla curatela delle opere di Dante per i “Meridiani” Mondadori, le sue numerose pubblicazioni, sempre di altissima qualità, l’ultima delle quali, Dante. Il romanzo della sua vita (Mondadori 2012) per densità critica, spessore stilistico e leggibilità dovrebbe essere lettura obbligatoria per tutte le persone colte.
Ma Santagata è anche un narratore di vaglia, a partire da Papà non era comunista (Guanda 1996), e Voglio una vita come la mia (Guanda 2008). In Come donna innamorata però l’obiettivo è alto, altissimo: raccontare la genesi della Vita Nova, il che implica tornare, ancora una volta, alla Firenze di Dante, a una Firenze perfettamente ricostruita nella sua atmosfera, e però come rarefatta, essenziale. L’autore immagina che il suo racconto inizi l’8 giugno 1294, quando Dante sta mettendo su carta quello che sarà il cuore di quel prosimetro destinato a cambiare le sorti della letteratura italiana. L’Alighieri di Come donna innamorata è il Dante che tutti noi abbiamo imparato a conoscere, orgogliosissimo, fiero della sua eccellenza intellettuale e culturale, che si sente lusingato dalla sua “fama di uomo che, cascasse il cielo, mai si sarebbe morso la lingua, mai avrebbe abbassato lo sguardo, meno che mai piegato la schiena” (p. 15).
Ma è solo ripercorrendo il rapporto con Beatrice, un rapporto più cerebralmente rivissuto che effettivamente vissuto, dai primi incontri infantili nella casa dove Bice viveva con il fratello Manetto Portinari, amico di Dante, sino alla visita al cadavere ricomposto nella camera ardente, che Dante prende coscienza delle sua missione di poeta, infinitamente più alta e più importante della responsabilità di creare una mera e semplice variazione sul tema della lirica di soggetto amoroso. “Le poesie per Beatrice adesso gli apparivano sotto una luce diversa. Non mentiva a sé stesso, sapeva bene di aver fatto di quella donna un angelo del paradiso unicamente per stupire il mondo con una poesia nuova. Voleva distinguersi, voleva che i suoi amici rimatori si sentissero vecchi, sorpassati. Eppure, adesso aveva come la sensazione che ciò che a lui, allora, sembrava solo una scelta di poetica, rispondesse a un piano di cui non era consapevole. Percepiva che una potenza esterna lo aveva ispirato, che un soffio creatore aveva fatto di lui il suo strumento. Si convinse che Dio lo aveva guidato sempre, anche nell’errore” (p. 106).
Insomma, è come se, dagli orgogliosi tentativi giovanili di emergere nel panorama poetico fiorentino, Dante via via prendesse coscienza non di avere lui scelto la poesia, ma, per così dire, di essere stato scelto, di essere quasi stato cercato dalla poesia, scelto per una missione poetica tanto alta e universale da poterglisi rivelare solo per gradi. Di questo il Dante protagonista di Come donna innamorata prende contezza solo mentre, nel gelo del castellaccio in Lunigiana dove viene ospitato da Moroello Malaspina, sta lavorando agli ultimi canti del Purgatorio, quelli ambientati nel Paradiso Terrestre, l’Eden dove poeticamente ritroverà Beatrice.
E come il Messia viene annunciato dal Battista, Beatrice, questa figura dalla valenza cristologica, viene annunciata da un’ancella, la Matelda che, nel nome, dice la sua funzione, quella di condurre al letam, alla beata; infatti, “Bice aveva le amiche. E per lui cos’altro eran le amiche di Bice se non esseri trasfigurati dalla luce che la sua amata rifletteva su di loro? Oscuramente percepiva che in quella invenzione di un Battista di sesso femminile i fantasmi della gioventù poetica venivano ad abitare i versi gloriosi del poema sacro” (p. 171).
E proprio mentre sta ideando la parte conclusiva della seconda cantica del “sacrato poema” (Pd XXIII, 62), quel Purgatorio che è la cantica più umana, dalla tonalità più dolce e a tratti elegiaca, dove l’amicizia ha tanta parte, Dante trova anche un modo per riconciliarsi poeticamente, e cioè non meno realmente, con il grande amico Guido Cavalcanti. Orgogliosissimo, malinconico, sempre tormentato da amori che arrivavano come violenti temporali per venire spazzati via altrettanto violentemente, Guido, di ricchissima famiglia magnatizia, cui gli “Ordinamenti di giustizia” di Giano della Bella (1278) vietavano l’accesso all’amministrazione della cosa pubblica, aveva molto mal sopportato che, convocato dal ricchissimo Vieri dei Cerchi, Dante avesse accettato di intraprendere la carriera politica. Su questa scelta, dettata secondo Cavalcanti da ambizione materiale e vanità morale, si era consumata la rottura fra i due amici (pp. 144-145): “All’uscita, se l’era trovato davanti. In piedi, sul lato opposto della strada, Guido lo stava aspettando (…) Nel tono vibrava una violenza a stento repressa: “E bravo il mio Dante, eccolo qua il filosofo, il servitore delle Muse! Servitore, sì, a libro paga. Ci è voluto poco, eh, il baluginio di un qualche incarichino, e giù nel fiume vent’anni di studi. Ma che tempra, ma che dignità! (…) Ti saluto, Dante Alighieri (…) Seguirò la tua luminosa carriera nel mondo del malaffare, ma a te non rivolgerò più la parola”.
E se, all’inizio, Dante, sconcertato dalla tenacia di quello che bolla come “nient’altro che un ricco viziato poeta d’amore” (p. 149), medita vendetta, dopo l’esilio decretato contro Cavalcanti dai priori, dopo la sua malattia, la malaria contratta a Sarzana, dopo la morte di Guido, nel 1300, morte che, inizialmente, Dante penserà quasi “cercata, per addebitargliela” (p. 163), nel finale del suo romanzo Santagata, con linguaggio piano e con quella capacità di spiegare con semplicità anche i fatti più complessi che è tipica dei grandi studiosi e dei grandi narratori, mostra un Dante che è riuscito a riconciliarsi, proprio grazie al valore salvifico della poesia, quando è davvero alta e ispirata, anche con il passato e le sue mille delusioni e amarezze.
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Marco Santagata, “Come donna innamorata”, Guanda, Parma 2015.