Hans Urs von Balthasar si è ampiamente meritato la fama di protagonista di primo piano della “nuova teologia” fiorita nella crisi della vecchia cristianità tradizionale, nel corso travagliato dell’ultimo secolo. Oltre a cimentarsi nell’elaborazione dei suoi contributi di maggiore impegno, che si sono imposti come sicuri punti di riferimento condiviso, convinto che il “tutto” non possa non riflettersi anche nel più minuto “frammento”, non volle lasciare andare disperse neppure le tessere secondarie del suo itinerario di ricercatore dell’Assoluto. Gran parte di queste sono state riprese in altre cornici più organiche, riunite con cura e rese, così, più agevolmente fruibili per i lettori destinati a subentrare nel tempo.
Nuovi punti fermi è una di queste preziose antologie, ancora oggi di vivida attualità, che raccolgono i frutti solo apparentemente “minori” della sua vasta opera di generazione di una cultura animata dalla fede. La tradusse in italiano Jaca Book nel 1980, l’anno successivo a quello dell’uscita in lingua tedesca. E nel volumetto si ritrovano diversi degli articoli pubblicati dall’autore nella prima fase di Communio: l’audace “strumento internazionale per un lavoro teologico”, creato insieme a Ratzinger, Corecco, Scola, nella scia dell’amicizia sorta con Giussani, agli inizi degli anni settanta (una davvero nobile impresa, oggi purtroppo bloccata da difficoltà che sembrano diventate insormontabili).
Il penultimo capitolo di Nuovi punti fermi è dedicato a “Martirio e missione”. Vi si affaccia il tema cruciale del ruolodel cristiano nello scenario creato dalle metamorfosi del mondo moderno. La sua identità non può mimetizzarsi ed essere “normalizzata”, lasciandosi assimilare. Conserva tutta la ricchezza di una diversità che ha bisogno per sua natura di offrirsi come proposta, in dono, e in questo suo mantenersi aperta al contatto con la vita che scorre si espone inevitabilmente al rischio del rifiuto, della marginalizzazione, alla lotta contro una mentalità e un costume sempre più secolarizzati, che si rinserrano nella presunzione di potersi costruire da sé, senza fare spazio a un’origine da cui dipendere, a un Altro a cui ultimamente rendere conto e verso il quale mettersi in cammino.
Ma non è giusto disperare, rimarca acutamente von Balthasar, opponendosi al facile lamento del pessimismo vittimista e rivendicativo. La Chiesa dell’ultima modernità ha visto sbriciolarsi molte delle sue antiche certezze e la rete delle sue un tempo floride istituzioni si è in parte rattrappita. Il paesaggio del sacro si è ristretto. Sono riemerse terre desolate che le ideologie e i miti del progresso non sono in grado di ripopolare restituendo l’energia e la vita minate da uno smarrimento generale. E la fede, spogliata della cintura protettiva dei mezzi mondani e delle sovrastrutture culturali di cui si era ricoperta per farsi forte e inglobare la realtà del cosmo umano, è costretta a ritrovare la sua autenticità più vera.
Purificata dalle prove dolorose inflitte dai suoi molti nemici, è ricondotta alle sue sorgenti essenziali. Passata al vaglio di una dura prova di forza, che l’ha stretta alle corde, può resistere solo se si rinnova sulle sue basi, rendendosi presente come esperienza incarnata e non più solo come retaggio del patrimonio di auguste civiltà del passato. Invece di perdersi, può tornare a essere ancora più limpidamente viva, come segno di speranza per tutti.
Questa prospettiva di giudizio che ribalta la logica del trionfalismo sociologico, restituendo alla persona viva di Cristo una centralità non più riducibile al sogno di una egemonia religiosa decaduta, spazzata via dalla marea montante di una “mondanizzazione” e di una “neutralizzazione” inarrestabili, è avallata da von Balthasar — mi sembra molto interessante sottolinearlo — appoggiandosi alle parole di un altro grande testimone della crisi di trasformazione della fede cristiana nel mondo contemporaneo: cioè di Péguy, uno dei letterati da lui più amati, come stile di pensiero prima ancora che come modelli concreti di vita.
Le pagine conclusive del capitolo di Nuovi punti fermi sono occupate da una lunga citazione (ma si tratta in realtà di parafrasi semplificata, come mi fa notare Pigi Colognesi, a cui sono debitore dell’identificazione precisa della fonte, che von Balthasar trascura di indicare), prelevata da un articolo del poeta-saggista francese apparso nella serie dei Cahiers de la quinzaine, il 24 settembre 1911: Un nouveau théologien. M. Fernand Laudet (si può leggere il testo originale francese, per intero, anche nel vol. III delle Oeuvres en prose complètes di Péguy, a cura di R. Burac, Gallimard 1992).
A questo testo del poeta francese il teologo di Basilea doveva essere particolarmente affezionato. Non è un caso se proprio un frammento di Laudet apre la selezione di prose di Péguy tradotte in lingua tedesca da von Balthasar nel 1952. E da Laudet è ricavata la provocatoria formula ad effetto, che campeggia nel cuore della porzione di taglio storico successivamente riproposta anche in Nuovi punti fermi, adottata nella scelta antologica balthasariana come titolo di alto richiamo simbolico: Wir stehen alle an der front («Noi stiamo tutti al fronte»).
È in fondo trascurabile che, nel riadattamento abbreviato per Martirio e missione, qualcosa della forza comunicativa del Péguy del 1911, che interveniva con fluida veemenza in risposta alle critiche avanzate da un organo di stampa «contro le verità essenziali della nostra fede», avendo preso come spunto il Mistero della carità di Giovanna d’Arco, vada inesorabilmente perduto. Rimane alterata la liricità trascinante del ritmo discorsivo dell’autore primitivo, che procede con la sua caratteristica retorica per accumuli a catena. Diversi dettagli di contorno sono sfumati o lasciati del tutto cadere. Ma la sostanza del ragionamento intrecciato da Péguy è comunque riprodotta nella versione modificata di von Balthasar con fedele aderenza.
Siamo ai paragrafi 219-223 e seguenti. Si parte da un risoluto invito, più esplicito nel testo francese, a usare solo con “estrema circospezione” il concetto di età della fede per qualificare le fasi storiche che hanno preceduto l’avvento del mondo pienamente moderno. Se ci si vuole riferire al “Medioevo” (traduce von Balthasar) per sostenere che “per secoli — secoli di cristianità, di comandamento dell’amore, della signoria della grazia — era comune la fede nella verità ricevuta, anzi era letteralmente qualcosa di pubblico che scorreva nel sangue e nelle arterie comuni, viveva nel popolo, [che] non solo era accolta, bensì era vissuta solennemente, ufficialmente, e si vuole anche dire che oggi non è più così, allora si ha ragione. Storicamente si ha ragione”.
Nello stesso tempo, però, prosegue Péguy (e con lui von Balthasar, che lo ricalca), bisogna anche riconoscere decisamente che la perdita di questa dimensione totalmente “pubblica”, generale e inglobante, in forza di “diritto comune”, con il rientro della fede nella sfera di un’affermazione “privata”, della coscienza dell’individuo, non coincide affatto con lo sfiguramento irrimediabile della vera identità cristiana. Nei “due o tre secoli” che costituiscono il vertice della più matura modernità, la modernità delle più dure “prove intellettualiste”, che per Péguy vanno, dunque, fatte risalire a un’epoca molto ristretta e vicina alla nostra (von Balthasar è ancora più sbrigativo, e parla semplicemente di “due secoli”), è indiscutibile che la fede sia stata investita dalle ondate ripetute di contestazioni, tradimenti e ipocriti abbandoni che hanno minacciato di sommergerla, travolgendola nei flutti. Ma per quanto “oppressa”, “isolata”, “continuamente flagellata dagli spruzzi e dalla tempesta”, la fedeltà di una fede nonostante tutto “perseverante” sta ancora più solidamente “eretta” in un mondo che non le concede più pace. Contro la forza degli oceani scatenati, la sua umile fiducia diventa il miracolo luminoso di una tenacia che non si lascia domare. “Avanzando cristianamente nel tempo moderno”, osando correre anche il rischio di perdersi per non rimanere aggrappata a un potere che non esiste più, essa ritrova “una specie di bellezza grande, unica, tragica”, la “grande bellezza” di una “forte castellana”, che “deve da sola difendere la fortezza per il signore, padrone e sposo”.
L’epoca delle battaglie proiettate verso l’esterno, lo spirito della crociata assunta come dovere eroico per la difesa da nemici lontani, sono finiti forse per sempre. Oggi l’appello alla lotta è per la verità della vita “nelle nostre case”. L’incredulità moderna ha dilatato il campo di combattimento portandolo “fino alle nostre porte”: “ogni cristiano è oggi un soldato”, nessuno più è “a riposo”, perché “la frontiera passa dovunque”. “Vi è alla lettera il servizio militare obbligatorio”, un vero “arruolamento di massa”. Una grande alluvione si è abbattuta, aggiunge infine Péguy, ma non è passata seminando solo macerie. Si è entrati in “statuto sociale nuovo”, in una realtà storica inedita: “porzioni intere di cristianesimo sono destate in piedi ai quattro angoli della terra, vecchi ceppi germogliano, fioriscono, crescono, producono fogliame e fruttificano, dappertutto”.
Davanti a una vita che non si distrugge, commenta di suo von Balthasar, si può ripartire solo dalla testimonianza viva di Cristo, anche a costo del martirio. Non basteranno i “marchingegni” e l’accumulo delle “leggi” per puntellare un edificio che frana.