Il tema di Expo invita a ripercorrere il patrimonio di racconti in cui il cibo — e quindi il pranzo, il desinare — è protagonista. A me, che ho intrattenuto per anni i ragazzi leggendo un po’ di letteratura, è venuto quasi spontaneo, in occasione di una lettura in una biblioteca milanese, di pensare alle novelle di Boccaccio. Perché Boccaccio? Perché è un classico, uno di quelli di cui Calvino diceva che non finiscono mai di insegnare. Rileggere i classici — non si pensi solo ai testi antichi — significa continuare a imparare, continuare ad approfondire la conoscenza di sé. 



Boccaccio vive  in un momento particolarmente acuto, un’epoca di cambiamento tra quella che si è soliti definire cultura medievale e quella mentalità nuova che prenderà il nome di umanesimo. Un’epoca di passaggio, di crisi delle istituzioni antiche e di nascita di nuove, un autunno, come lo diceva Huizinga, in cui prende avvio il mondo moderno. Don Luigi Giussani in un suo libro sulla Chiesa lo esplicita bene: “possiamo collocare l’inizio di un processo di disarticolazione della mentalità religiosa, capace di porre adeguatamente il problema religioso, nel corso del secolo XIV. […] Molti sono i motivi, si potrebbe dire che in un clima di maggiore benessere viene favorita  un’aria di disimpegno con la globalità e l’incarnazione di quei valori ideali che pure teoricamente si trattengono”. 



Taluni intellettuali del tempo mostrano una ferita: da una parte il riconoscimento ancora chiaro, ma solo teorico, di una certa visione dell’uomo e di un certo senso morale, dall’altra un sentimento globale del vivere — dice ancora don Giussani — “che si pone come fluttuante, per proprio conto, disarticolato dalla teoria”. L’uomo — e Boccaccio è grande pittore di ciò — pertanto si trova ad essere disarticolato in una molteplicità di ideali; alla sintesi si sostituisce una parzialità, che alla lunga — e lo abbiamo visto nello svolgersi di questi secoli e ancor più nella coscienza dell’uomo moderno — non esaurisce desiderio più profondo dell’uomo. Non era certo un mondo, quello che nasceva nel Trecento, contro Dio, ma innestava quel processo di separazione da Dio che man mano si è verificato nel corso dei secoli. Dio non ha a che fare con gli interessi della vita e quindi risulta, almeno socialmente, inincidente. 



Il Decameron è un libro molto complesso ed è interessante proprio perché testimonia ciò a cui ho accennato. Il libro nasce con una cornice che inquadra le cento novelle ripartite in dieci giornate, narrate a turno da dieci ragazzi scappati dalla città per sfuggire la peste, l’orrore del male. Le novelle raccontano la società mercantile, quella in cui il negozio, il denaro segnano in certo modo i confini del reale.

Questa realtà effettuale è conciliabile con Dio? Certamente, perché esso rimane misterioso nei cieli! Sono la fortuna, l’intelligenza e l’amore le molle che muovono l’agire umano nelle più svariate sfaccettature: una materia multiforme. 

Una novella (V giornata, novella nona) ha come fuoco un pranzo, un desinare, che assume la fisionomia del dramma. Protagonista è Federigo degli Alberighi, un nobile che consuma tutta la sua ingente fortuna per far innamorare di sé monna Giovanna, ricca signora sposata che, secondo il suo costume, non lo degna neppure di una guatatura. Ma la vita va avanti: Federigo si ritira in un podere in campagna con un falcone che è l’unico suo sostentamento; monna Giovanna, rimasta vedova, passa le estati in una villa confinante. Avviene che il figlio della donna, ammalato, ha nelle evoluzioni del falcone l’unico conforto alla sua malattia, lo vorrebbe e chiede alla madre di andare da Federigo per chiederlo. Prima titubante, la donna poi si decide e si reca a pranzo dal vicino, senza svelare il motivo vero della sua venuta. Federigo è felice e insieme disperato perché non ha nulla per onorare la donna, gli resta solo il falcone che viene sacrificato e imbandito a tavola. Un animo nobile, quello di Federigo, capace di sacrificare la cosa a lui più necessaria per amore. Anche per monna Giovanna si tratta di amore, questa volta per il figlio. Due amori diversi che si incontrano in quel desinare fatale: che cosa pensa Monna Giovanna mentre si vede servito quel piatto? Alla gentilezza di Federigo. Che cosa pensa Federigo? Onorare quella donna con la cosa più preziosa che possiede. Lo stesso cibo diviene oggetto di desideri diversi, invece di unire quel desinare porta, in certo modo, a una discordia: Federigo piange disperato perché ciò che doveva essere la dimostrazione suprema del suo amore, diventa di fatto la causa della sofferenza massima per la donna. Monna Giovanna loda al grandezza d’animo di Federigo, ma nel contempo se ne va  tutta malinconosa.

Un convito che invece di essere un convivium, sembra essere il suo contrario: il desinare “divide” i commensali, uno mangia ciò che gli dà vita, l’altra ciò che avrebbe potuto dare la vita al figlio. Sia pure con consapevolezza diversa in definitiva entrambi si ritrovano ad avere compiuto un sacrificio. Possibili allusioni? Il desinare è, può essere, un vero sacrificio, nel suo più profondo significato etimologico?