“Di che è mancanza questa mancanza,/ cuore,/ che a un tratto ne sei pieno?/ di che?“. Nonostante chi afferma che le domande esistenziali siano una faccenda da adolescenti (o forse da adolescenti di una volta; oggi i giovanotti che diano voce all’ineluttabile nostalgia del cuore sono rari, tendenti perlopiù ad indirizzare quella nostalgia verso beni immediatamente tangibili), il Mario Luzi che si pone questa domanda è nientemeno che un ottantenne. La poesia con cui la esprime, infatti, fa parte della raccolta Sotto specie umana del 1999; Luzi è nato nel 1914 e i conti sono presto fatti: quando esce questo libro il poeta ha circa ottantacinque anni. Non fa quindi parte della tribù dei poeti adolescenti (Leopardi, Rimbaud…) che hanno lanciato al cielo i loro quesiti fondamentali, e questo è molto importante per noi.
Certe domande non hanno età, sono costitutive dell’uomo. Luzi, poi, è stato un poeta razionale, interrogativo, a volte persino troppo. Da qui una certa sensazione, errata, di freddezza delle sue poesie, che certo non aprivano mai le cateratte dell’emozione fine a se stessa. Eppure in questo testo, l’emozione risuona, ed insolitamente forte: “di che?” ripete con forza il poeta. Di che cosa sento la mancanza? Sorprende anche la continuazione della poesia: “Rotta la diga/ t’inonda e ti sommerge/ la piena della tua indigenza…“. Ci mette insomma davanti l’immagine di una piena, un’alluvione. Alluvione di cosa? Dell’indigenza, della povertà assoluta del cuore. Non dimentichiamo infatti che in questo brano il poeta si rivolge al suo cuore, al nucleo di se stesso, e lo trova poverissimo, manchevole, bisognoso.
Talmente bisognoso, da essere in agonia, cioè sul punto di morire: “Viene,/ forse viene,/ da oltre te/ un richiamo/ che ora perché agonizzi non ascolti“. La mancanza del cuore, la sua povertà e la sua agonia non sono una chiusura. È possibile accorgersi di un “richiamo” da “oltre te”, e oltre è una parola importante, centrale, perché trascende la miseria del cuore, sordo a questo richiamo a causa della sua quasi morte. Richiamo che “viene,/ forse viene“, dice il poeta usando ancora la ripetizione a dare forza all’attesa, con quel verbo che non può non ricordare la poesia del Novecento più bella sull’attesa, Dall’imagine tesa di Clemente Rebora, dove il verbo venire fa da colonna vertebrale a tutta la seconda parte, dove la certezza di un avvento salvifico diventa certa.
Anche in Luzi, nella parte finale di questo testo straordinario, avvertiamo la stessa certezza: “Ma c’è, ne custodisce forza e canto/ la musica perpetua… ritornerà./ Sii calmo“. Con che tenerezza il poeta chiede al suo cuore, a se stesso, di essere calmo, e paziente nell’attesa. La forza e il canto di una musica che non ha fine (“perpetua”) c’è e ritornerà.
Anche quel c’è è importantissimo, tipicamente luziano. Mario Luzi, infatti, non è il poeta dell’essere, ma dell’esserci, dell’essere-qui. Qui ed ora. Così uno dei poeti italiani più metafisici diventa immediatamente fisico, concreto. L’essere non è astratto, né altrove: gioca tutto il suo onore e la sua verità (Onore del vero si intitola una sua raccolta degli anni Cinquanta) qui ed ora. Questo calma il cuore e lo rende disponibile ad aprirsi ad un’ipotesi positiva rispetto a quella mancanza di cui, con un’espressione contraddittoria (in poesia si chiama “ossimoro”) il cuore è pieno.