Nell’estate del 1914, poco prima che sui fronti di guerra tuonassero i cannoni, veniva effettuato l’ultimo viaggio di un treno singolare: l’espresso che collegava la capitale dell’impero russo, San Pietroburgo, a un rinomato Kurort del Tirolo, Merano, incantevole luogo di villeggiatura e di cure termali divenuto celebre alla fine dell’Ottocento grazie ai soggiorni dell’imperatrice Elisabetta d’Austria. I viaggiatori russi si affezionarono a Merano a tal punto da fondarvi la “Casa russa Nadežda Borodine”, un’istituzione benefica finalizzata ad ospitare russi poco abbienti per soggiorni di cura e alla quale era annessa la chiesa di San Nicola: una piccola Russia meranese, prefigurazione delle tante “russie fuori dalla Russia” che avrebbero costellato l’Occidente dopo la Rivoluzione d’ottobre e nelle quali esuli che avevano perduto tutto si diedero a ricostruire la cultura, la civiltà, la fede religiosa della patria.
Arrivano i russi, un volume trilingue (tedesco, italiano e russo) appena edito ad opera di Bianca Marabini Zoeggeler e Michail Talalay (Touriseum, Merano 2015) e corredato da splendide foto e immagini d’epoca ci conduce in un viaggio immaginario tra la Russia e le valli tirolesi: raffinatissimi vagoni ristorante e vagoni letto, signore in cappelli fantasiosi, ferrovieri diligentemente schierati insieme al personale di servizio, eleganti hotel in stile liberty, vecchie cartoline… Tutta l’atmosfera della belle époque, ma soprattutto l’incontro tra culture diverse, tra le due anime della civiltà europea, con l’aprirsi di un piccolo borgo del Tirolo a visitatori provenienti dalla lontanissima Russia e certamente sentiti a volte come un poco pittoreschi: “Qui si parla russo” si poteva leggere ai primi del Novecento sui cartelli esposti davanti ai negozi dei Lauben, i portici di Merano. Erano del resto quelli gli anni dell’epopea del Lloyd austriaco, i cui piroscafi, da Trieste, partivano per Venezia, l’Istria, la Dalmazia e si spingevano fino al lontano Oriente: come guardare, oggi, senza una punta di commozione i vecchi manifesti pubblicitari, scritti di volta in volta in tedesco, italiano, francese, che, accanto alle orgogliose navi del Lloyd, mostravano ora la baia di Ragusa, ora uno scorcio di Venezia illuminata dalla luna, ora vedute di luoghi esotici: Costantinopoli, l’Egitto, l’India, il Giappone…
Di lì a poco il diluvio. I colpi di pistola che risuonano a Sarajevo il fatale 28 giugno 1914 scatenano quella che è stata giustamente definita l’apocalisse della modernità e segnano la fine del mondo di ieri, per usare la celebre espressione di Stefan Zweig. Quella del Titanic che fa rotta verso la catastrofe mentre l’orchestra continua a suonare è forse una metafora più evidente per descrivere il collasso della civiltà europea consumatosi a seguito della Grande guerra, ma anche la brusca interruzione del collegamento ferroviario San Pietroburgo-Merano potrebbe ben assumere un valore altrettanto emblematico: quel treno fu l’ultimo della vecchia Europa, perché, in seguito, nulla sarebbe più stato uguale a prima.
Non sarà forse un caso se il celebre espresso compare in uno degli struggenti racconti di Joseph Roth: Il capostazione Fallmerayer, nel quale viene descritta la storia d’amore tra un capostazione austriaco e un’affascinante contessa russa. L’appuntamento col destino è segnato per i due amanti proprio da un incidente ferroviario sulla linea per Merano, che precede di poco (e forse prefigura?) lo scoppio della guerra, durante la quale l’ex capostazione, con la divisa di ufficiale imperial-regio, si trova sul fronte orientale. In un mondo sconvolto, Fallmerayer e la contessa Walewska resteranno uno accanto all’altra fino al ritorno del marito di lei, invalido. A quel punto, vinto e déraciné come altri eroi di Roth, il protagonista del racconto sparisce senza lasciare traccia, poiché la fuga senza fine rimane l’unico destino possibile per i naufraghi di un mondo scomparso.
Nell’estate del 1914 il viaggio da Merano verso San Pietroburgo è senza ritorno. In tutti i sensi. Pochi, ma tremendi, interminabili anni più tardi, un’Europa sprofondata in un incubo di imbarbarimento e disperazione vedrà a Versailles la sua carta politica ridisegnata in modo tale da porre le premesse per un nuovo e ancor più tragico conflitto, strettamente collegato all’affermarsi dei totalitarismi. La Russia sarà allora in balìa del bolscevismo e tutto un popolo di esuli la lascerà, inizialmente sperando in un futuro possibile ritorno, poi, col tempo, tagliandosi i ponti alle spalle. Unica speranza diviene allora quella di mettere radici a Parigi e nelle altre città dell’Occidente interessate dalla diaspora russa, mentre la Russia reale sempre più svanisce nel ricordo, quasi cessando di esistere. Come scriveva il poeta Georgij Ivanov: «Russia è felicità, Russia è luce. / O forse essa è svanita nella notte. […] e non c’è Pietroburgo, non c’è Cremlino a Mosca: / solo campi su campi, e neve e ancora neve».
All’altro capo della strada ferrata, Merano e tutta la parte meridionale del Tirolo, in barba al tanto enfatizzato principio di autodeterminazione dei popoli, sono rimaste tagliate fuori dalla patria e si trovano ora ancorate all’Italia, dove, anche per diretta conseguenza della Grande guerra, sta per imporsi il regime fascista. La stessa vecchia Austria, d’altro canto, non esiste più — se non nel ricordo e in un tenace lascito culturale e civile: la piccola repubblica austro-tedesca ne è solo una pallida sopravvivenza e presto verrà fagocitata dalla Germania nazionalsocialista. Carlo d’Asburgo, il giovane imperatore, è in esilio e finirà prematuramente i suoi giorni su un’inospitale isola atlantica, mentre a Vienna trafficanti, profittatori, arrampicatori sociali la fanno da padroni. Come quel tale Gurtner che nel racconto Mendel dei libri, di Stefan Zweig, arricchitosi durante la carestia del 1919 facendo incetta di farina e burro, riesce a portar via il Caffè Gluck al suo vecchio proprietario. Il losco parvenu — commenta l’autore — «si era comprato anche la rozza coscienza della nuova epoca».
Sarà forse troppo scontato, ma come non tornare, ancora una volta, alla pagina conclusiva della Cripta dei Cappuccini di Joseph Roth, quando il protagonista percorre solitario le strade deserte di Vienna, avvolte da una notte spettrale: «Dove devo andare, ora, io, un Trotta?».