Adesso che l’Expo c’è e funziona, al di là delle diverse opinioni e valutazioni che si possono avere al riguardo almeno un fatto è indubitabile: che si tratta davvero di un evento enorme. E stupisce, in positivo, che l’Italia sia riuscita ad aggiudicarselo pur attraversando un momento così difficile.
Vi siete mai chiesti come si fa a ottenere l’organizzazione di una manifestazione del genere, a cui tutto il mondo aspira? E avete mai immaginato, visitando i padiglioni e percorrendo il decumano, qual è stato in tutto ciò il ruolo delle isole di Antigua e Vanuatu o quello delle magliette autografate dell’ex-calciatore del Milan Clarence Seedorf?
A queste e a molte altre domande risponde il bel libro La candidatura (Indiana, Cremona 2015), 134 pagine di piccolo formato che si leggono tutte d’un fiato in un paio d’ore al massimo, scritte (tra l’altro anche molto bene) dall’uomo che ha portato l’Expo a Milano: Gaetano Castellini Curiel.
E già il nome dell’autore ci dà, prima ancora di leggere una sola riga, un’informazione molto importante: perché alzi la mano chi aveva mai sentito parlare di lui prima d’ora. Ma è così che funziona. Perché certo anzitutto è necessario che si muovano i pezzi grossi delle istituzioni, ma poi quelli che portano davvero a casa il risultato è chi si muove dietro le quinte, sconosciuto al grande pubblico, svolgendo un lavoro tanto oscuro e ingrato quanto decisivo.
Il motivo è che, come in tutte le istituzioni di questo tipo, anche in quella che ogni cinque anni assegna l’organizzazione dell’Expo, il Bureau International des Expositions, vale il principio “un paese, un voto”. È chiaro che non potrebbe essere altrimenti (chi e in base a quali criteri potrebbe infatti “pesare” i voti dei singoli paesi?), ma la conseguenza è che Antigua o Vanuatu contano come gli Stati Uniti o la Cina, anzi, addirittura di più, dato che i paesi piccoli sono la maggioranza, come hanno dimostrato in altri contesti Havelange e Blatter, che hanno costruito i loro regni pluridecennali all’interno rispettivamente del Cio e della Fifa proprio privilegiando il rapporto con essi.
Pur non essendo del tutto equo, questo sistema ha indubbiamente i suoi aspetti positivi, primo fra tutti che così le grandi manifestazioni, che altrimenti finirebbero inevitabilmente per essere monopolio pressoché esclusivo di dieci o venti paesi al massimo, girano veramente in tutto il mondo. Tuttavia ci sono anche dei problemi: anzitutto, che i paesi piccoli sono, per l’appunto, tanti e chi vuole vincere deve riuscire a ottenere l’appoggio di buona parte di essi; secondo, che mentre per ottenere il voto di un grande paese valgono soprattutto le logiche politiche tradizionali, i paesi piccoli sono molto più sensibili allo scambio di favori.
Si badi che stiamo parlando di favori del tutto leciti e non di corruzione (che ovviamente può sempre verificarsi, ma è tutta un’altra storia): anzi, in molti casi, come si scopre leggendo il libro, la campagna per l’Expo ha rappresentato anche il pretesto per finanziare opere molto utili, soprattutto in Africa, in un momento in cui, come purtroppo sappiamo, la cooperazione internazionale è in grande difficoltà. Tuttavia ciò che alla fine fa la differenza, più che il favore in sé (che ovviamente verrà offerto anche dagli avversari), è riuscire a fare il favore “giusto”, che a seconda delle circostanze e degli interlocutori può andare dai serissimi progetti appena menzionati alle tematiche ambientali, dal turismo al calcio (fondamentale per convincere i paesi caraibici) fino alle magliette autografate di Seedorf richieste dal primo ministro della minuscola isola di Kiribati (tanto piccola che con la bassa marea raddoppia le sue dimensioni) in cambio del suo sostegno a Milano. Ed è qui che entrano in gioco i Castellini Curiel: persone serie, preparate e riservate (che per fortuna il nostro paese possiede ancora, benché purtroppo in numero assai minore che in passato), a cui più che apparire interessa far bene il proprio lavoro e che si dedicano a tempo pieno alla “causa”, svolgendo una minuziosa analisi delle caratteristiche di ciascun paese, in modo da mettere in grado il potente di turno (che in questo caso era principalmente l’allora sindaco di Milano Letizia Moratti) di fare la mossa giusta al momento giusto.
Naturalmente il libro è anche in parte una storia di vita, né poteva essere diversamente, dato che per l’autore l’Expo è stato la sua vita, per tutta la durata della campagna: «Per venti mesi ho visitato più di ottanta paesi, percorso circa cinquecentomila chilometri, equivalenti a sedici volte il giro del mondo. Sono atterrato con un biplano su un’isola sperduta nell’oceano Pacifico, ho passeggiato per le strade di Monrovia e cenato nell’ambasciata a Washington; ho dormito su aerei, taxi, ho fotografato tribù di indigeni e conosciuto i dittatori che le volevano eliminare. Ho trovato affabili persone sconvenienti e prevedibili i più capaci. Ho stretto la mano a capi di Stato, affaristi, sottosegretari, generali, ministri, lobbisti, imprenditori, amici di amici. Ho ascoltato relazioni, suggerito strategie, riportato voci, presentato progetti e redatto i materiali preparatori agli incontri istituzionali, interpretato gli sguardi e i movimenti corporei in un costante refrain a caccia di dettagli rivelatori», trascurando la vita privata e la salute e ingrassando di diciassette chili, il tutto per battere la città turca di Smirne, all’inizio data da tutti per favorita e alla fine surclassata per 86 a 65.
Non ci si aspetti però di trovare in queste pagine analisi culturali approfondite: come lo stesso autore ha avuto modo di constatare sulla propria pelle, dopo aver inizialmente sperato di poterne approfittare anche per fare un po’ di turismo e conoscere il mondo, il lavoro era talmente vasto e complesso che non restava praticamente il tempo per nient’altro che preparare i dossier cercando il tasto giusto su cui battere, raggiungere il paese da convincere, dare l’imbeccata alla Moratti e poi via per il paese seguente, a volte addirittura il giorno stesso. Ciononostante, o meglio proprio per questo, il libro finisce per dare un punto di vista inedito su molti dei paesi visitati, che, pur riducendosi a pochi concetti essenziali, permette però spesso di capire cose che normalmente sfuggono anche a resoconti molto più approfonditi: dopotutto, scoprire ciò che un paese desidera di più in un dato momento storico dice qualcosa di importante su di esso, che va molto al di là della circostanza specifica che ha generato la richiesta.
Ma nel libro di Castellini Curiel si trova anche altro. Anzitutto l’importanza della società civile e delle relazioni personali, che gli hanno permesso di costituire una vera e propria «rete informale» da affiancare a quella istituzionale, rivelandosi spesso molto più efficace, perfino nell’ottenere appuntamenti con ministri e capi di Stato, sfruttando tutto quello che capitava purché fosse utile alla causa: dalle relazioni di affari a quelle di parentela, dall’inaugurazione della Scala alle partite di calcio, alla moda, all’arte e a tutte le altre eccellenze italiane.
E proprio questo è il secondo punto che stupisce, e che ha stupito per primo l’autore e i suoi collaboratori: «la quantità di attori rilevanti a livello internazionale in grado di veicolare l’eccellenza milanese» e «il fascino che l’Italia e Milano emanano sul resto del pianeta».
Infine, colpisce l’orgoglio per aver partecipato a quello che è stato, come dice il sottotitolo, non la vittoria di una parte politica o di una città, ma «un successo italiano», in cui «la macchina, al contrario delle aspettative, per una volta si è rivelata un meccanismo oliato alla perfezione, in cui ogni componente ha partecipato attivamente», senza i soliti stupidi campanilismi e le solite guerre autolesioniste tra maggioranza e opposizione.
E da tutto questo nasce spontanea una domanda: cosa sarebbe mai il nostro paese se cominciasse a volersi bene sul serio, valorizzando le sue eccellenze anziché continuare a penalizzarle con tasse e burocrazia assurde e imparando a “fare sistema” abitualmente e non solo «per una volta»? Speriamo che la lezione di Expo possa servire. Anche per questo — anzi, soprattutto per questo — merita davvero leggere questo libro.