Il drammatico acuirsi delle vicende dell’immigrazione sta provocando un fenomeno a dir poco contraddittorio. Per un verso i cittadini italiani ed europei continuano a dare grande prova di solidarietà offrendo agli immigrati, sia sulle coste siciliane come sul continente europeo, concrete modalità di accoglienza per consentire a tutti di poter giungere alle loro destinazioni finali nel miglior modo possibile. Per altro verso gli stessi europei mostrano di soggiacere a nuove e più subdole forme di paura di fronte ad un fenomeno che sembra non finire mai e soprattutto non avere reali possibilità di soluzione. Mettendo per una volta da parte gli aspetti politici e sociali del fenomeno, è opportuno soffermarsi su quelle che potremo definire le tre nuove paure che si aggirano per l’Europa.



La prima paura è quella ideologico-politica. Chiamiamola paura dell’Isis, che nel linguaggio comune identifichiamo con i “tagliatori di teste”. Mentre in Occidente mostriamo grande rispetto e solidarietà ai cristiani perseguitati e uccisi per la fede in ogni parte del mondo e partecipiamo con preghiere e sincera condivisione alle loro vicende, non poniamo altrettanta cura alla nostra fede qui e ora. Che si tratti di uno scontro, culturale, epocale o religioso poco ci importa. Ciò che si va diffondendo è la paura che la nostra società, con la sua cultura, le sue regole e il suo benessere diffuso, nulla possa contro gente disposta a morire per una causa che noi riteniamo di nessun valore. La paura non è quella sull’esito dell’eventuale “scontro finale”, quanto quella di non possedere le armi per combattere un nemico così imprevisto e imprevedibile. Una paura che l’Occidente non ha mai avuto, forte delle sue certezze basate sulla democrazia, sullo sviluppo, sulla educazione, sulla condivisione di valori che si ritenevano universali, come quelli della Rivoluzione francese. Per ora scongiuriamo il problema ritenendolo lontano nello spazio e nel tempo. Ma fino a quando?



La recentissima Enciclica Laudato si’ apre anche in questo delicato problema squarci e prospettive di giudizi e di proposte che meritano attenzione. L’appello di papa Francesco alla “nuova solidarietà universale” a partire dal tema a lui così caro della “nostra casa”, che emerge con forza fin dalle prime pagine, ci aiuta innanzitutto a non guardare alla globalizzazione come un nemico da cui difenderci, ma come ad una opportunità per tutti, solo che sappiamo superare vecchi criteri di appartenenze, legati a contesti storici, geografici o sociali ormai superati. Non vi è dubbio, infatti, che questa nuova e moderna forma di emigrazione di massa è frutto di una globalizzazione che in tanti hanno voluto e sostenuto e che comunque oggi è per il mondo intero un punto di non ritorno. L’idea di innalzare muri è in questo contesto a dir poco stantia e priva di alcuna prospettiva, giustificabile solo con la paura. Una paura che proprio perché istintiva non è gestibile e condizionabile.



La seconda paura si può definire etno-identitaria. Il dibattito di questi ultimi giorni ha riportato alla ribalta la parola identità. In molti hanno ripreso a chiedersi se questa ondata massiccia di immigrati farà perdere l’identità alla nostra nazione ed anche all’Europa. Papa Francesco affronta questo tema nell’Enciclica al n. 46 affermando che “Tra le componenti sociali del cambiamento globale” si deve includere tra gli altri anche “la perdita di identità”, evidenziando come “Alcuni di questi segni (di cambiamento) sono allo stesso tempo sintomi di un vero degrado sociale, di una silenziosa rottura dei legami di integrazione e di comunione sociale”. E il suo dire si fa più stringente quando afferma al n. 143 che vi sono, oltre al patrimonio naturale, altri patrimoni minacciati, quali quello storico, artistico e culturale. Torna quindi sul tema dell’identità e dice che questo patrimonio “è parte dell’identità comune di un luogo e base per costruire una città abitabile. (…) Bisogna integrare la storia, la cultura e l’architettura di un determinato luogo, salvaguardandone l’identità originale”.

In queste affermazioni vi è una indicazione anche per il delicato momento che Italia e Europa stanno vivendo a causa di un confronto “in casa” e non più “fuori casa”, come finora era avvenuto. I popoli europei da molti secoli non vivono l’esperienza dell’immigrazione sul proprio territorio. Hanno vissuto massicciamente quella dell’emigrazione, ma da tempo immemorabile non fanno l’esperienza dell’accoglienza a casa propria. Si sentono quindi minacciati nella propria identità. Ma qual è questa identità? Dopo aver definitivamente rinunciato ad accettare l’evidenza che quella cristiana poteva essere il collante in grado di unire tanti popoli così divisi e così diversi, si sono rifugiati nel laicismo e nel relativismo. I fatti di Parigi dell’inizio dell’anno hanno cominciato a mettere in crisi anche questa pretesa di leggere tutto con il trinomio liberté, egalité, fraternité. E, dunque, quale identità va affermata o difesa? Il Papa offre un chiave di lettura che può aiutare anche il Vecchio Continente a ripensare alla suo passato e al suo futuro, a partire dal bene prezioso dell’ambiente.

Dopo aver richiamato la necessità di avere cura delle ricchezze culturali dell’umanità, chiede in nome proprio dell’ecologia di “prestare attenzione alle culture locali nel momento in cui si analizzano questioni legate all’ambiente”. E prosegue: “È la cultura non solo intesa come i monumenti del passato, ma specialmente nel suo senso vivo, dinamico e partecipativo, che non si può escludere nel momento in cui si ripensa la relazione dell’essere umano con l’ambiente”.

Al n. 144 passa ad analizzare con realismo e crudezza quella visione consumistica dell’essere umano “favorita dagli ingranaggi dell’attuale economia globalizzata”, che tende “a rendere omogenee le culture e a indebolire l’immensa varietà culturale”. Afferma, senza mezzi termini, che la complessità delle problematiche locali, che richiedono la partecipazione attiva degli abitanti, non possono essere risolte “mediante normative uniformi o con interventi tecnici”

E andando al positivo afferma: “È necessario assumere la prospettiva dei diritti dei popoli e delle culture, e in tal modo comprendere che lo sviluppo di un gruppo sociale suppone un processo storico all’interno di un contesto culturale e richiede il costante protagonismo degli attori sociali locali a partire dalla loro propria cultura. Neppure la nozione di qualità della vita si può imporre, ma dev’essere compresa all’interno del mondo di simboli e consuetudini propri di ciascun gruppo umano”. Queste sole affermazioni sono già sufficienti per rivedere molti dei comportamenti e dei giudizi, non solo degli Stati e dei Governi, ma anche di tanti cittadini e di tanti cristiani che, al di là della generosità e dell’impegno solidaristico mostrato in questi anni (da Lampedusa a Ventimiglia) vivono in una posizione difensivistica, incapaci di comprendere e accettare fino in fondo che quanto sta accadendo può essere una possibilità, piuttosto che una iattura.

Particolarmente suggestivo è in tal senso il richiamo che il Papa fa quando parla delle comunità aborigene con le loro tradizioni culturali, per le quali “la terra non è un bene economico, ma un dono di Dio e degli antenati che in essa riposano, uno spazio sacro con il quale hanno il bisogno di interagire per alimentare la loro identità e i loro valori. Quando rimangono nei loro territori, sono quelli che meglio se ne prendono cura”.

Forse questo richiamo, anche se può apparire lontano e distante, può aiutarci a comprendere da dove oggi possiamo ripartire. Rifiutato il cristianesimo come comune origine dei popoli europei, crollate le ideologie con la loro pretesa di creare in laboratorio l’uomo nuovo, di fronte all’impossibilità di laicismo e relativismo di dare identità all’uomo europeo, guardare all’ambiente in cui viviamo, prima che il suo utilizzo indiscriminato finisca di distruggerlo, può essere utile anche per saper accettare e comprendere se chi tenta in vario modo di entrare in Europa è un fratello da accogliere o un nemico da combattere. A Torino il Papa ha detto: «L’immigrazione aumenta la competizione, ma i migranti non vanno colpevolizzati, perché essi sono vittime dell’iniquità, di questa economia che scarta e delle guerre».

A parole nessuno li ritiene colpevoli, ma nei fatti la loro presenza comincia ad incutere paura. Non ci preoccupa più vedere la sera i nostri centri storici popolati da tante etnie e da tante culture, piuttosto l’idea che i nostri figli, le nostre famiglie, i nostri luoghi di vita debbano essere seriamente e definitivamente condivisi con altri, di cui più o meno consciamente non ci fidiamo. E, quindi, cerchiamo certezza nelle regole e nelle leggi. Ma il Papa ammonisce che non saranno le “normative uniformi” a darci certezze, quanto la capacità di incontrare l’altro, questi altri, nella loro storia culturale e nella loro umanità etnica.

La terza paura si può chiamare economica-sociale. Comincia a diffondersi la convinzione che tutti questi immigrati non solo portano via il poco lavoro che c’è, ma che per dar loro da mangiare bisognerà diminuire, ben più di quanto la crisi ha finora chiesto, il nostro tenore di vita. Ciò non esclude la grande testimonianza di solidarietà e accoglienza che italiani e europei stanno continuando a dare in questi giorni (si vedano i casi di Ventimiglia e delle stazioni di Roma e Milano). Ma tutto ciò è ben diverso dal dover significativamente abbassare il livello di benessere raggiunto per consentire di dividerne una parte con tutti quelli che arrivano.

Sempre nell’Enciclica al n. 193 si dice: “In ogni modo, se in alcuni casi lo sviluppo sostenibile comporterà nuove modalità per crescere, in altri casi, di fronte alla crescita avida e irresponsabile che si è prodotta per molti decenni, occorre pensare pure a rallentare un po’ il passo, a porre alcuni limiti ragionevoli e anche a ritornare indietro prima che sia tardi”. Questo giudizio del Papa getta una luce nuova sul nostro stesso concetto di sviluppo. Finora ne abbiamo accettato, nostro malgrado, un rallentamento temporaneo, in vista di una ripresa che speriamo giunga presto. L’Enciclica apre ad una ipotesi diversa e utilizza per la prima volta la parola “decrescita”: “Sappiamo che è insostenibile il comportamento di coloro che consumano e distruggono sempre più, mentre altri ancora non riescono a vivere in conformità alla propria dignità umana. Per questo è arrivata l’ora di accettare una certa decrescita in alcune parti del mondo procurando risorse perché si possa crescere in modo sano in altre parti. Diceva Benedetto XVI che «è necessario che le società tecnologicamente avanzate siano disposte a favorire comportamenti caratterizzati dalla sobrietà, diminuendo il proprio consumo di energia e migliorando le condizioni del suo uso».

Questo invito dell’Enciclica è un giudizio molto preciso sul tipo di società che abbiamo costruito o ereditato, e deve essere un punto da cui partire, soprattutto per comprendere le ragioni dei fratelli migranti. Richiede l’accettazione di una condivisione dello sviluppo globale fondato non più solo sul tempo necessario per chi è indietro di raggiungere chi è più avanti. Chiede, piuttosto, a chi è più avanti di frenare, se non di tornare indietro, per attendere coloro che, certamente non per propria colpa, non possono godere dello sviluppo che per altri è un dato acquisito. Non ci viene chiesto appena la responsabilità di saper vivere la carità senza se e senza ma, ma anche l’impegno a formare una corretta coscienza cristiana che sia libera dai condizionamenti del mondo e strettamente legata al giudizio della Chiesa e del Papa. Solo uno sguardo che butti non solo il cuore, ma anche la mente oltre l’ostacolo, può consentirci tutti insieme di vivere questa dolorosa vicenda dell’emigrazione, come una nuova e provocante possibilità.

La paura non si vince con l’autoesaltazione del coraggio, che spesso manca. Ma guardando ad altri e oltre, verso traguardi che forse da soli non riusciremmo nemmeno a intravvedere.

La sfida è ben più vasta di quella che faticosamente e timidamente le nazioni europee sembra stiano iniziando a raccogliere. Quando avremo evitato, speriamo presto e definitivamente, le morti per mare o via terra, si porrà un grave dilemma: questi fratelli hanno diritto ad essere ospitati “a casa nostra”, o potranno vivere con noi, in modo paritario, su questo territorio ove noi già viviamo, magari da secoli?

L’Enciclica ci aiuta ad imboccare questa nuova prospettiva.

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