Il 4 dicembre 1963 veniva promulgato il primo testo scaturito dal Concilio Vaticano II, la Costituzione sulla Sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium. In appendice a questo importante documento si trova una Dichiarazione del Concilio Vaticano II circa la riforma del calendario, nella quale si legge: «Il sacro Concilio ecumenico Vaticano II, tenendo nel debito conto il desiderio di molti di veder assegnata la festa di Pasqua ad una determinata domenica e di adottare un calendario fisso, dopo aver preso accuratamente in esame le conseguenze che possono derivare dalla introduzione di un nuovo calendario, dichiara quanto segue: Il sacro Concilio non ha nulla in contrario a che la festa di Pasqua venga assegnata ad una determinata domenica nel calendario gregoriano, purché vi sia l’assenso di coloro che ne sono interessati, soprattutto i fratelli separati dalla comunione con la Sede apostolica». A questa dichiarazione fecero poi seguito concreti sforzi di Paolo VI per arrivare a un accordo con le altre Chiese e Confessioni cristiane, che purtroppo rimasero senza esiti concreti.
Possiamo dunque riconoscere che la questione recentemente riproposta da Papa Francesco è — almeno per quanto riguarda la posizione ufficiale della Chiesa Cattolica — oggetto di attenzione e di una positiva disponibilità da più di cinquant’anni.
Purtroppo — come si è potuto constatare compulsando le varie fonti di informazione nei giorni scorsi, dopo l’annuncio di papa Francesco — la memoria collettiva ha trattenuto quasi nulla di questa vicenda, che dai più è stata riproposta come una novità. Per questo motivo, prima di soffermarci sulle ragioni del rinnovarsi della preoccupazione del Papa e della Santa Sede sul tema, vale forse la pena provare a riproporre qualche spunto di carattere storico e teologico.
La questione della data della Pasqua, infatti, si propone non solo per la differenza tra le varie confessioni cristiane, ma anche e prima ancora in relazione alla Pesach ebraica e al fatto della sua “mobilità”. Già dal modo di dire popolare secondo cui la Pasqua è “alta” o “bassa”, infatti, intuiamo che la data di questa festa non è — come altre ricorrenze, quali il Natale o l’Assunzione di Maria — sempre “fissa”, ma può variare anche significativamente, pur restando collocata “più o meno” in corrispondenza della stagione primaverile.
Ma, appunto: perché la Pasqua non ha una data fissa? E quali sono, allora, i criteri che si seguono per determinarla anno per anno?
La risposta alla prima domanda ci riporta al centro focale della fede cristiana, ovvero all’avvenimento della morte e risurrezione di Gesù Cristo. Questo evento storico, come tutti sanno, avvenne infatti nel luogo e nel tempo in cui si celebrava la Pasqua ebraica, e dunque si lega indissolubilmente ad un calendario — quello del popolo d’Israele — che come molti altri calendari dell’antichità (e non solo) è basato non sull’anno solare, come il nostro attuale e come quello romano riformato da Giulio Cesare nel 46 a.C., bensì sul mese lunare di 29/30 giorni.
Tra l’anno solare di 365 giorni e quello basato sui dodici mesi lunari (di circa 354 giorni), vi è dunque una discrepanza di 11 giorni. Se quindi la Pasqua dei cristiani si colloca in relazione cronologica con la Pasqua ebraica, che ha quale data prescritta il 14 del mese di Nisan, ovvero il giorno del primo plenilunio di primavera (perché il primo giorno di questo mese coincide con la luna nuova, e il 14esimo giorno del ciclo lunare corrisponde alla luna piena), si tratta innanzitutto di stabilire — ogni anno — a quale mese e giorno del calendario solare questa data corrisponda. Calcolo non facile, dal momento che la differenza tra il ciclo lunare e l’anno solare fa sì che il primo plenilunio di primavera possa cadere tra il 21 marzo e il 18 aprile.
Ma questo primo criterio — che corrisponde sostanzialmente a quello seguito per calcolare la data di Pesach, ovvero la Pasqua ebraica — non basta da solo a rispondere alla domanda di partenza. La Pasqua ebraica, infatti, non è legata a un preciso giorno della settimana, mentre quella cristiana cade sempre in domenica. Anche questo aspetto, però, è frutto di un’evoluzione storica: i primi cristiani, infatti, celebrarono innanzitutto la “Pasqua settimanale”, ovvero il giorno commemorativo della resurrezione di Cristo, in quello che per i romani era il “dies solis” (o “giorno del sole”: un nome rimasto nella tradizione anglosassone che indica la domenica come Sunday in inglese e Sonntag in tedesco), divenuto per i credenti la “dominica dies“, ovvero il “giorno del Signore”, la nostra “domenica”; solo più tardi (e gli studiosi non sanno con certezza dire quando) si volle stabilire una data annuale in cui — senza smettere di celebrare la “Pasqua settimanale” ogni domenica — si commemorasse più intensamente (e con un evidente richiamo storico, radicato soprattutto nella memoria della Chiesa di Gerusalemme, nonostante tutte le sue tragiche vicende) il mistero della morte e resurrezione di Gesù.
Ma ciò avvenne secondo due diverse modalità: sappiamo infatti che, nel II secolo d.C., le comunità cristiane dell’Asia Minore celebravano la Pasqua proprio il 14 Nisan, rifacendosi alla cronologia del vangelo di Giovanni, secondo il quale Gesù fu ucciso (cf. Gv 19,14) mentre venivano immolati gli agnelli che sarebbero stati consumati nella cena pasquale; e tale celebrazione, in cui veniva sottolineato soprattutto l’aspetto “sacrificale” della morte di Cristo, considerato il vero agnello pasquale, aveva luogo qualunque fosse il giorno della settimana in cui cadeva il 14 Nisan. Le chiese di Alessandria e Roma — seguite da molte altre chiese occidentali e orientali — celebravano invece la Pasqua sempre e solo in giorno di domenica, richiamandosi allo specifico del giorno “primo dopo il sabato” in cui avvenne la resurrezione del Signore.
Le due usanze andarono avanti in parallelo per diversi decenni, poiché ambedue potevano ricollegarsi all’antica e originaria tradizione degli apostoli (rispettivamente nella sua declinazione giovannea e petrina). Vi furono però alcune difficoltà, dovute alla presenza a Roma — città di immigrazione anche ai tempi dell’impero romano — di comunità cristiane composte da fedeli originari dell’Asia Minore, che anche in terra straniera volevano continuare a celebrare la Pasqua secondo le loro usanze: avveniva così che nella medesima città si celebrava la Pasqua in due momenti diversi e con accentuazioni liturgiche e teologiche distinte. Sappiamo che intorno al 150 il vescovo di Smirne (nell’attuale Turchia) Policarpo venne a Roma, da papa Aniceto, per un incontro su questo tema: i due non trovarono una soluzione, e ciascuna comunità mantenne le proprie usanze; tuttavia si accolsero reciprocamente nella concelebrazione e si salutarono restando in pace e nella comunione vicendevole.
Non così — purtroppo — avvenne verso la fine dello stesso secolo, quando papa Vittore si oppose duramente a Blasto, un presbitero che voleva estendere a tutta la chiesa di Roma l’usanza cosiddetta “quartodecimana” (da “quattuordecim”, che in latino significa “quattordici”, ovvero il 14 di Nisan…): nell’imperversare della polemica, dopo aver consultato i vescovi di tutto l’impero e oltre, Vittore scrisse una lettera assai dura a Policrate, vescovo di Efeso, minacciando di scomunica le chiese dell’Asia Minore, se non avessero abbandonato la loro prassi in favore della Pasqua domenicale. Nella polemica intervenne a fare da paciere anche Ireneo, il famoso vescovo di Lione (poi Santo e Padre della Chiesa), che era di origine asiana, e sembra che non si giunse alla rottura della comunione con le chiese asiane, mentre a Roma, Blasto venne considerato eretico.
Un punto fermo fu posto per tutta la Chiesa al Concilio ecumenico di Nicea, celebrato nel 325. L’esigenza di una celebrazione unitaria della Pasqua era fortemente avvertita dai vescovi, e lo stesso Costantino la desiderava, dal momento che l’unione e l’unanimità erano nella sua visione un elemento essenziale per conservare la pace all’impero praticando la giusta modalità di rendere onore a Dio. Si decise così di estendere a tutta la cristianità l’uso alessandrino e romano: la Pasqua deve essere celebrata sempre di domenica, e nella prima domenica che segue la prima luna piena dopo l’equinozio di primavera. Questa decisione, che segnava di fatto la fine della celebrazione quartodecimana della Pasqua, rispecchia la tradizione in vigore fino ad oggi: alcune controversie con le chiese di Siria e Cilicia, prima, e di Irlanda, poi, furono per lo più collegate alle difficoltà di calcolo, che avevano trovato diverse soluzioni per far collimare le fasi lunari con il ciclo solare, ma non ad una opposizione “ideologica” volta a far resuscitare l’uso quartodecimano.
È da sottolineare un uso importante del IV secolo, quello delle cosiddette “lettere festali”: i patriarchi di Alessandria, città famosa per la qualità degli studi e la pratica dell’astronomia, avevano ogni anno il compito di inviare alle altre chiese una lettera circolare nella quale annunciavano la data della Pasqua e, a partire da essa, quella delle altre feste mobili. Queste lettere venivano inviate in concomitanza con l’Epifania, e ancora oggi nell’uso di annunciare la data della Pasqua dopo il Vangelo, il 6 gennaio, possiamo sentire l’eco di questa antichissima usanza.
Ma come mai l’unanimità stabilita a Nicea, e non senza un percorso complesso e tuttavia decisamente interessante per la crescita dell’autocoscienza ecclesiale, per la celebrazione della Pasqua, a tutt’oggi non esiste più, in particolare tra la Chiesa cattolica (insieme alle Chiese della Riforma) e le Chiese ortodosse o vetero-orientali? La ragione, in questo caso, non deriva direttamente dalla comprensione teologica della Pasqua e del suo significato, ma piuttosto dalla differenza del calendario in uso. Nel 325, infatti, il calendario “ufficiale” era quello stabilito da Giulio Cesare (e detto quindi “giuliano”) nel 46 a.C., che, prevedendo un mese bisestile ogni quattro anni, cercava così di armonizzare il ciclo dei giorni con quello della rivoluzione terrestre (anno “tropico”), in modo da mantenere fisse le date principali (equinozi e solstizi). Ma anche con questa correzione l’anno giuliano veniva ad essere più lungo di circa 11 minuti rispetto all’anno tropico: e così, alla fine del XVI secolo, si era accumulato un anticipo di 10 giorni, tale da far iniziare le stagioni ben prima delle date “canoniche” di solstizi ed equinozi. Fu papa Gregorio XIII, nel 1582, a riformare il calendario, sopprimendo i dieci giorni “di troppo” e stabilendo che dal 4 ottobre, per quell’anno, si passasse immediatamente al 15, così da riportare l’equinozio di primavera (essenziale per il computo della Pasqua) al giorno stabilito dal Concilio di Nicea, ovvero al 21 marzo.
Questa riforma, sulla quale ancora oggi noi occidentali ci basiamo per il nostro calendario, non venne però accettata da tutti, e trovò molte opposizioni soprattutto di carattere politico e religioso. In particolare, essa non venne accettata nei Paesi di tradizione ortodossa e vetero-orientale se non — e non in tutti i casi — nel secolo XX per quanto riguarda il calendario civile, mentre per quanto riguarda il calendario ecclesiastico e la data della Pasqua, le Chiese ortodosse e non calcedonesi ancora oggi seguono il calendario giuliano, il cui divario — che nel 1582 era di 10 giorni — si è ulteriormente ampliato, contando ormai 14 giorni. Per questo motivo, solo eccezionalmente avviene che la Pasqua cada in una data unica: quando, cioè, la combinazione tra il ciclo lunare e quello dei due calendari fa sì che unico sia il plenilunio che funge da riferimento per ambedue i calendari, giuliano e gregoriano.
Le consultazioni iniziate nel 1966 da Paolo VI, come ha recentemente ricordato la riproposizione su L’Osservatore Romano del 14 giugno di un articolo del compianto Vittorio Peri, non furono del tutto infruttuose: tra le Chiese ortodosse vi furono colloqui e iniziative che portarono nel 1982 all’elaborazione di un possibile piano di riforma dei calendari giuliano e gregoriano (esso stesso bisognoso di una correzione poiché dal 1582 ha accumulato una discrepanza rispetto al tempo astronomico), che tuttavia non venne approvato nella II Conferenza Panortodossa per ragioni pastorali, per il timore di causare sconcerto tra i fedeli.
La riproposizione della questione da parte di Papa Francesco segna in ogni caso un nuovo passo nella sempre più urgente manifestazione della centralità –— sempre più avvertita anche per le circostanze drammatiche che quotidianamente ci vengono documentate — del cammino ecumenico, che si fa imprescindibile e che, come ha affermato il Pontefice ai sacerdoti, non è “un compito in più” per gli uomini di Chiesa, ma un “mandato d’amore” affidato da Gesù ai cristiani prima della sua Passione. Proprio perché hanno questa origine, il comandamento e la preghiera per l’unità non si risolvono nella costruzione da parte nostra di una unità da “assemblare” quasi fosse un puzzle interminabile e complesso, quanto piuttosto consistono nel riconoscimento di una unità che già ora viene posta da Cristo e documentata attraverso la testimonianza di coloro che ora, sulla terra, sono i suoi più fedeli imitatori, i suoi alter ego: i martiri. Questi martiri affermano fin d’ora l’unità dei cristiani, perché unica è la loro morte e unico è il loro sangue versato per testimoniare l’unico Cristo Signore. Una simile realtà — quella della vita spesa a immagine della Passione di Gesù — dovrebbe spingerci a rivedere tutte le obiezioni alla testimonianza comune, riconoscendo come esse siano, in ultima analisi, frutto del nostro peccato, che assume sempre la forma della tentazione a costruire un’immagine di Chiesa alternativa a quella che Cristo rende continuamente Sua Sposa, Egli che è ogni giorno presente tra i Suoi “fino alla fine del mondo”.
Non si tratta, dunque, semplicemente di una novità o di un tema che per qualche giorno può suscitare l’interesse e la curiosità dei media. È un’altra invocazione, da parte di papa Francesco, a renderci conto della serietà del tempo presente, un richiamo a riconoscere nella situazione difficile di oggi non un motivo di rassegnazione o di rabbia, ma piuttosto l’occasione opportuna, il kairòs attraverso cui Cristo purifica e rinnova la Sua Chiesa.