Esibire in un museo i resti di una persona non è come esporre un sasso, un’anfora o un fossile di alga. La persona, che ha incarnato quelle ossa, al momento della sua morte, ma anche nei suoi secoli futuri, non sarà mai né un’anfora né un’alga. I defunti, seppur non possano essere accuditi oltre il naturale affetto e la naturale premura che hanno saputo generare nei loro discendenti, e seppur la loro memoria si perda necessariamente nel fisiologico oblio delle generazioni, non saranno mai declassabili, neanche millenni dopo, ad oggetti da musealizzare accanto ad amuleti, fibule, sesterzi, spilloni e casseruole in argento. L’irriducibile impossibilità della persona a divenire puro oggetto archeologico esibito lo si capisce anzitutto dalla nostra diretta esperienza: chi di noi non si sentirebbe a disagio all’idea che, tra qualche secolo, anche musei internazionali come il British Museum di Londra o la Cité des Sciences et de l’Industrie di Parigi mettano in bacheca il nostro cranio e i nostri occhi con una didascalia sotto che non dice nulla della nostra vita, dei nostri affetti, delle nostre battaglie, ma di quanto fosfato di calcio o ossido di ferro è presente nelle ossa umane o quanto siano consistenti l’iride, la cornea e il muscolo ciliare dei nostri occhi? 



È questa irriducibilità della persona a divenire nuda “cosa” che ci fa essere molto scettici e critici nei confronti delle esposizioni museali che, con sempre maggior frequenza, riducono i resti degli individui a materialità da esporre didascalizzando l’epoca e la geografia in cui questa materialità è divenuta uomo. 



Ne è triste ed esemplare testimonianza la mostra (fino al 2 novembre, ndr) che nel sito archeologico di Pompei allestisce i calchi restaurati delle vittime che furono sorprese dall’eruzione del Vesuvio nel 79 d.C. Come sappiamo gli individui sono stati pietrificati nell’attimo estremo della loro vita da quella violenta deflagrazione di lapilli, fumo e cenere: chi è accucciato, chi ha tentato di scappare, chi è rantolante, chi è abbracciato ad un’altra persona, chi è sorpreso nell’atto di pregare. Il nuovo allestimento, gestito dal ministero dei Beni culturali e del turismo che ha in tutela l’area archeologica, esibisce gli attimi finali della vita di un uomo o di un bambino, in un gioco quasi esteticamente gradevole di forme e posizioni, di luci e di ombre, quasi una scenografia teatrale della morte. 



Il dramma mineralizzato di quelle persone reali è divenuto un gioco irriverente e voyeuristico di forme, ospitato dentro (chissà perché) un’artificiale piramide fuori contesto. La dignità di quei morti è perduta. Quando la persona viene ridotta ad oggetto museale e la sua presenza ridotta a materialità storico-biologica, ciò che viene meno è percepire l’infinito, il mistero, che quella persona ha incarnato. 

L’infinito scompare e ciò che viene esaltato, paradossalmente, è la finita e anonima mortalità dei suoi resti. La musealizzazione dei resti di un individuo stacca l’individuo stesso dal filo amniotico che lo lega al mistero eterno dell’esistente e lo mummifica nella sua pura indifferenziata corporalità. 

Sono almeno tre secoli che materialisticamente, scientificamente, vengono esibiti corpi umani senza rivendicare, senza esaltare l’unicità che quei resti hanno avuto nell’atto del loro essere persona; anzi al contrario vengono esaltati — musealizzati, messi sotto vetrina — proprio perché smettono di essere persona e diventano corpi anonimi da studiare biologicamente, antropologicamente, sociologicamente. I calchi pompeiani, le varie mummie disseminate nelle collezioni egittologiche universitarie, i vari scheletri o organi vitali esibiti nei musei o dipartimenti di biologia o di anatomia, rivendicano orgogliosamente che l’uomo è da esaltare nel suo aspetto mortale e soprattutto privato di quell’identità unica e irripetibile che lo ha fatto persona.

Il cristianesimo è stato ed è il contrario: ha esibito da secoli le salme o le reliquie dei santi, ma questa esibizione e questa adorazione erano inserite in una visione complessiva del tragitto e della mortalità umana che consegnava e consegna a quel corpo muto, fermo nella teca di una chiesa, di un altare, di una catacomba, di un cimitero di campagna, un suo profondo rispettoso significato: ciascun uomo, dai profeti all’ultimo contadino, ha una profonda insondabile missione in seno all’eterno. Il più umile dei barboni ha una storia più infinita e potente del cranio che preserva il suo cerebro. Per questo, ogni volta che un’ideologia, una dottrina, una scienza, una pratica museologica, nega alla persona (e ai suoi resti) di essere quel singhiozzo d’eterno che la rende imperitura, il cristianesimo sarà sempre lì a consegnare, a quella stessa persona, un destino più rispettoso della sua vita e della sua morte.