Papa Francesco, ieri, nell’omelia della messa dei santi Pietro e Paolo ha pronunciato queste parole: «non vorrei soffermarmi sulle atroci, disumane e inspiegabili persecuzioni, purtroppo ancora oggi presenti in tante parti del mondo, spesso sotto gli occhi e nel silenzio di tutti. Vorrei invece oggi venerare il coraggio degli Apostoli e della prima comunità cristiana; il coraggio di portare avanti l’opera di evangelizzazione, senza timore della morte e del martirio, nel contesto sociale di un impero pagano; venerare la loro vita cristiana che per noi credenti di oggi è un forte richiamo alla preghiera, alla fede e alla testimonianza».
Il papa parla di venerare il coraggio degli apostoli e dei primi cristiani e di venerare la loro vita. Ma che cosa significa questa espressione? Perché ripete due volte il verbo “venerare” e non dice semplicemente “ammirare” oppure “meditare”? Si ammirano gli eroi, si riflette sull’esempio dei saggi, ma si venerano i santi. Nella Passione di Perpetua e Felicita, uno dei testi più antichi della letteratura martiriale, che racconta le vicende di due giovani martiri uccise a Cartagine nel 207, c’è un episodio molto significativo a questo proposito. Felicita, una schiava, già all’ottavo mese di gravidanza quando viene arrestata, mentre si trova in carcere in attesa del supplizio viene colta dalle doglie. Sentendola urlare di dolore, un carceriere la schernisce: «Se soffri tanto adesso, cosa farai quando ti daranno alle fiere? E pensare che sembravi disprezzarle, quando ti sei rifiutata di sacrificare!». Lei risponde: «Adesso sono io che soffro quel che soffro; allora, sarà in me un altro che soffrirà al posto mio, poiché io subirò il martirio per lui».
Il martire non è un eroe, non è un superuomo (o una superdonna) che, come frutto di un lungo percorso formativo e ascetico, ha acquisito un completo autocontrollo e la capacità di sfidare impavido la morte per affermare il proprio ideale: quello è piuttosto il modello del sapiens stoico (si pensi all’immagine di Catone Uticense che Seneca ci presenta nell’atto di darsi la morte, tanto coraggioso da suscitare l’ammirazione degli stessi dèi!), ma si tratta di un esemplare umano quanto mai raro, per non dire improbabile.
I martiri cristiani sono davvero “persone qualunque”, uomini, donne, bambini, spesso privi di quelle doti e di quella formazione che, nella visione degli antichi, erano necessarie a configurare l’uomo perfetto. Ma proprio in questa loro umana inadeguatezza si incardina il valore preziosissimo della loro esperienza, e gli scrittori cristiani non si stancano di metterlo in risalto discutendo con i pagani: certo, anche tra di voi — dicono — qualche volta può esserci una personalità eccezionale che è in grado di affrontare la morte con sereno coraggio (come fece Socrate), ma le centinaia o le migliaia di persone comuni che lietamente danno la propria vita per Cristo, come si spiegano?
Noi cristiani di oggi, soprattutto in occidente, abbiamo bisogno di rimettere la realtà del martirio al posto che le compete nell’orizzonte della chiesa, cioè al centro. Il martirio non è un accidente, ma un’esperienza che è sempre stata presente, in varie forme, nella vita di fede, come Gesù ha esplicitamente predetto ai suoi discepoli (cfr. Gv 15,20: «se hanno perseguitato me perseguiteranno anche voi»; Mc 10,29-30: nel centuplo promesso a chi lo segue sono incluse le persecuzioni). Esso contiene qualcosa di essenziale per la ragionevolezza della nostra fede: noi crediamo, infatti, non per una cieca adesione, bensì fondandoci su delle testimonianze. Quella di Cristo, che è morto e risorto per noi, e poi tutte quelle di coloro che, per grazia, hanno unito la loro vita con la sua, fino all’effusione del sangue.
In questo senso, la morte di un martire cristiano non è equiparabile a nessun’altra morte che avviene nel mondo: certo, ogni vittima innocente è ugualmente nel cuore di Dio, ma il valore testimoniale della sofferenza patita in nome di Cristo è unico. I primi cristiani questo lo avevano ben chiaro, noi oggi forse molto meno.
E proprio perché si tratta di una chiamata, di un dono (tremendo) che solo Dio può fare, la coscienza cristiana ha sempre avvertito che il martirio non può essere scelto, non può essere cercato, ma solo accettato. Nel Martirio di Policarpo, un altro testo martiriale del II secolo, a un certo punto si ricorda un tale Quinto, venuto dalla Frigia, che alla vista delle belve si impaurisce e abiura. Eppure «era stato lui stesso a trascinare sé ed altri all’autodenuncia spontanea», commenta l’autore.
Nel coraggio che il papa ci invita a venerare è compresa anche la prudente umiltà di chi sa di non disporre di nulla e non è proteso ad affermare “eroicamente” una propria supremazia morale.