Nell’estate del 1955, un aristocratico siciliano, raffinato e coltissimo, fino a quel momento sconosciuto al panorama letterario italiano, riprendeva la stesura di un romanzo — di cui aveva scritto un capitolo sul finire dell’anno precedente — ambientato in Sicilia all’epoca dello sbarco dei Mille: contemporaneamente, sentiva la necessità di tornare con la memoria ai luoghi della sua fanciullezza. Il libro di memorie si chiamerà I luoghi della mia prima infanzia; il romanzo, celeberrimo, Il Gattopardo



L’autore, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, tentò invano di farlo pubblicare: ricevette due rifiuti dagli editori, l’ultimo da Vittorini, pochi giorni prima della morte, nel luglio del ’57. L’anno successivo, per interessamento di un lettore simpatetico come Giorgio Bassani, lo scrittore che di lì a poco avrebbe accompagnato i suoi lettori lungo i viali della memoria e dell’elegia del Giardino dei Finzi Contini, il romanzo uscì da Feltrinelli, la casa editrice sorta da pochi anni e già nota per la pubblicazione di un altro caso letterario, Il dottor Zivago di Boris Pasternak. Fu un successo immediato e clamoroso, anche internazionale, favorito successivamente dalla versione cinematografica di Visconti del ’63. Oggi Il Gattopardo ci appare un libro bellissimo, dal fascino inalterato e, insieme a Il giardino dei Finzi Contini di Bassani e a Una questione privata di Fenoglio, il romanzo italiano più importante della seconda metà del Novecento, capace di fondere alta qualità letteraria e piacevolezza narrativa.



Più che un romanzo storico, Il Gattopardo è un romanzo esistenziale, poiché tutti i fatti vengono riflessi nella coscienza del protagonista; l’accezione “storico” può essere semmai intesa al modo di Marguerite Yourcenar, per la quale un romanzo storico può soltanto essere nel Novecento “immerso in un tempo ritrovato, presa di possesso di un mondo interiore”. In questo senso, il Gattopardo è più vicino a Proust e a Thomas Mann che a Verga e a De Roberto, quindi più novecentesco di quanto sia apparso a qualche lettore. Del resto fu lo stesso Tomasi a chiarire la sua concezione, in una lettera all’amico Lajolo del gennaio ’57 e riportata nella documentatissima biografia di Andrea Vitello: “non vorrei però che tu credessi che è un romanzo storico!”. Ed ancora: Il Gattopardo “è l’aristocrazia vista dal di dentro senza compiacimenti ma anche senza le intenzioni libellistiche di De Roberto”.



La memoria e la storia si intrecciano nel romanzo nel modo più suggestivo. L’inizio è lento e solenne: “la recita quotidiana del Rosario era finita”, scandito con una cadenza che fa pensare all’inizio del Dottor Zivago di Pasternak, uscito l’anno precedente. Il protagonista del libro è il principe Fabrizio Salina, di cui è vano discettare su derivazioni autobiografiche. Sulle antiche abitudini signorili, intatte da secoli, piomba la violenza della storia: lo sbarco dei garibaldini, a cui il principe assiste più con disincanto che con rabbia, la Sicilia essendo la terra “dei cento sbarchi, da Nicia in poi”. 

Sarà il nipote Tancredi, amato più di un figlio, a cogliere i segni dei tempi, schierandosi con le camicie rosse e pronunciando la battuta più celebre di tutto il romanzo, vero e proprio inno al trasformismo: “Se non ci siamo anche noi, quelli ti combinano la repubblica. Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”. Il principe capirà che “molte cose sarebbero avvenute, ma tutto sarebbe stato una commedia, una rumorosa, romantica commedia con qualche macchia di sangue sulla veste buffonesca. Questo era il paese degli accomodamenti”. Alla generazione dei Gattopardi si sostituirà quella degli “sciacalletti” e delle “iene”. “E dopo sarà diverso, ma peggiore”.

L’ironia e la leggerezza rendono il personaggio di Tancredi tra i più affascinanti della narrativa italiana moderna. Nobile decaduto economicamente, dapprima sembra attratto dalla cugina Concetta, figlia di don Fabrizio, ma poi è travolto dalla grazia sensuale di Angelica, figlia di Calogero Sedàra, sindaco del paese, emblematico rappresentante della nuova classe borghese, arrivista senza scrupoli, ma scaltro e dotato di un ricchissimo patrimonio, utile a rimpinguare l’esangue aristocrazia locale. Per consolare l’affranta cugina, Tancredi le presenterà l’amico ufficiale Cavriaghi, scialbo giovanetto autore di un timido corteggiamento: porgerà a Concetta le poesie di Aleardi, ma il rapporto non andrà a buon fine. E come poteva andare diversamente? — noterà Angelica: sposare Cavriaghi dopo essere stata innamorata di Tancredi “sarebbe stato come bere dell’acqua dopo aver gustato il Marsala”. 

Ma è il principe a giganteggiare nel romanzo. Dall’alto della sua “inespugnabile cortesia”, vede il suo mondo franare. Ligio, pur ironicamente, ai suoi doveri familiari e sociali, volge tuttavia il suo sguardo altrove: alle stelle, preferibilmente, “felicemente incomprensibili”, “le intangibili, le irraggiungibili, quelle che donano gioia senza poter nulla pretendere in cambio, quelle che non barattano”, guardate dal suo osservatorio di astronomo dilettante (nel senso etimologico del termine); al paesaggio siciliano che, pur nelle sue violente contraddizioni, si presenta nella sua inquieta fascinazione. “Sotto il lievito del forte sole ogni cosa sembrava priva di peso: il mare, sullo sfondo, era una macchia di puro colore, le montagne che la notte erano apparse temibili, piene di agguati, sembravano ammassi di vapore sul punto di dissolversi”. Poi ancora volge il suo interesse alla caccia, o meglio ai preparativi per la caccia, assaporati nei minimi dettagli. Il piacere stava lì, nella rasatura nella camera ancora buia, nell’attraversare i saloni addormentati, nel percorrere il giardino immoto sotto la luce grigia nel quale gli uccelli più mattinieri si strizzavano per far saltare via la rugiada dalle penne, “nel fuggire, insomma”. Poi, sulla strada “innocentissima ai primi albori”, incontrava l’amico, sorridente tra i baffi ingialliti mentre sacramentava affettuosamente contro i cani e questi, nell’attesa, fremevano i muscoli sotto il velluto del pelo. E, in alto, “Venere brillava, chicco d’uva sbucciato, trasparente e umido”. Ancora, si svoltava lungo un pendio “e ci si trovava nell’immemorabile silenzio della Sicilia pastorale. Si era subito lontani da tutto, nello spazio e ancor più nel tempo”. 

Ma a vincerlo è soprattutto il fascino della bellezza femminile, incarnato qui dalla pura grazia di Angelica. Al suo apparire, lascia gli astanti senza fiato; poi, come il personaggio ariostesco, la ragazza si fa inseguire da Tancredi nelle stanze, innumerevoli, del palazzo — dato che, a parere del Principe, “un palazzo di cui si conoscessero tutte le stanze non era degno di essere abitato” — e i due innamorati “godevano nell’inseguirsi, nel perdersi, nel ritrovarsi”. Furono quelli i giorni più belli della loro vita, quando il desiderio si era “sublimato in rinunzia, cioè in vero amore”.

Il pathos della bellezza e della nostalgia raggiunge il suo apice nella famosa scena del ballo nel Palazzo Ponteleone. A don Fabrizio niente appare più patetico dello spettacolo della gioventù e della bellezza trionfanti di Tancredi e Angelica, dei loro corpi abbracciati, destinati a morire. E’ la pietas dell’autore che gli detta le pagine più alte del libro, alla vista di “questi effimeri esseri che cercavano di godere dell’esiguo raggio di luce accordato loro tra due tenebre”. E allora “come era possibile infierire contro chi, se ne è sicuri, dovrà morire?”. I ballerini sembrano spettri, sospesi in un barocco ballo di morte, ma tutti appaiono “miserevoli, insalvabili e cari”, per lo sguardo commosso del principe. Egli si accosterà, allora, trasognato, nella biblioteca, a contemplare la “Morte del Giusto” di Greuze. Lì sarà sorpreso dal nipote, ancora una volta acutissimo, che lo interpella: “Zione, corteggi la morte?”. 

La scena costituisce una prefigurazione della fine del protagonista, descritta nel capitolo successivo, ambientato oltre vent’anni dopo, nel 1883. La perdita della vitalità, annunciata dalle strategie della fuga e della rinunzia, come quella dell’elegante rifiuto rivolto al delegato piemontese Chevalley, giunto a Palermo per proporgli la nomina a senatore del Regno, trova qui il suo compimento. La morte lo coglie sul balcone dell’albergo Trinacria, quando “sotto l’altissima luce Don Fabrizio non udiva altro suono che quello interiore della vita che erompeva via da lui”. Sono pagine altissime che fanno ricordare tante altre grandi scene di congedo: quelle verghiane della morte di Mastro don Gesualdo, le tolstojane della morte di Ivàn Ilìc, della Yourcenar delle Memorie di Adriano e, forse più di tutte, le ultime ore di Aschenbach nella Morte a Venezia di Thomas Mann. 

Nel naufragio imminente, il principe riconosce la fine di “queste povere cose care” e nel bilancio di una vita di settantenne restano “alcune pagliuzze d’oro” in un mucchio di cenere; tra queste, alcune settimane prima e dopo il matrimonio, la nascita del primo figlio, alcune ore passate nell’osservatorio “nell’inseguimento dell’irraggiungibile” e ancora la comprensione preziosa e ironica di Tancredi, i cani, la caccia, le risate con l’amico, qualche lampo di soddisfazione, quando “aveva dato risposte taglienti agli sciocchi”. 

Infine, si staglia ancora la figura femminile, come l’ultima intravista alla stazione di Catania. “Su settantatré anni, all’ingrosso ne avrò vissuto, pienamente vissuto, un totale di due…tre al massimo. E i dolori, la noia, quanti erano stati? Inutile sforzarsi a contare: tutto il resto: settant’anni”. Il monologo interiore si spegne sulla riva del mare. Per tutta la vita il principe aveva cercato, leopardianamente, la “bella donna”, la “cara beltà”, quella che non delude, nelle creature della terra e ancora di più tra le costellazioni. Ora era lei “la creatura bramata da sempre” che aveva pietà di lui e che veniva a prenderlo. Sollevato il velo, “gli apparve più bella di come mai l’avesse intravista negli spazi stellari. Il fragore del mare si placò del tutto”.