Profonda è la coerenza poematica che contraddistingue il percorso di Mario Luzi. I suoi movimenti obbediscono ad una idea di poesia, ad un tempo piano teorico e prassi tecnica. Sul piano teorico il poeta lambisce i territori della urgenza “ermetica” del linguaggio, e quelli di un pensiero improntato secondo una matrice evoluzionistica e spirituale (con i riflessi di Teilhard de Chardin). Nelle sue parole tale matrice meglio può essere detta “progresso spirituale”. Qui la prospettiva di senso in cui la sua percezione temporale del mondo si dà, assume i caratteri di un armonico (poietico) tendere, nonostante le contraddizioni e le contrarietà della vita e della storia. Un telos sembra potersi intuire, un ri-chiamo costante, che rende inquieta la materia, coinvolgendola in un lavoro-passione dove nel cammino, e nel dolore connesso, si viene attuando una crescita-creazione inesausta.
Questo profilo è sistematico in Luzi, oggetto di un perenne ripensamento, di un perenne esame di coscienza, essendo il poeta coinvolto nell’oggetto del suo pensiero, essendone la “carne” e la parola viva. Certo le stagioni della vita e dell’ispirazione del poeta hanno fatto registrare variazioni, ma in modo organico. Ciò che stupisce nei suoi versi poi, nella pratica di una lingua poetica impastata sull’andamento della cadenza toscana e dell’endecasillabo, è la ricerca di trovare il varco allo stato nascente della parola, dell’enunciazione, dove queste siano impaginate nel mondo. Luzi sembra sempre intento a verificare se nell’atto della sua versificazione si dia la parola creaturale, si dia onto-logia.
Quanto distante questa pratica linguistica da quella di un dire inteso come comunicazione tra emittente e destinatario. Secondo le parole del poeta “la poesia dipende ben poco dalle comunicazioni che il poeta ha da fare ai suoi ascoltatori. Il messaggio, se c’è, viene da più lontano che dal suo patetico lamento: passa attraverso la sua parola qualcosa che il mondo sta rivolgendo dentro di sé: qualcosa che è e nello stesso tempo diviene”. L’ispirazione viene qui dal Non-detto, e il poeta vorrebbe ascoltare e dire perché ascolta, senza ben capire il perché, il donde, il come, l’ a-che. La meraviglia, il thauma è qui aura diffusa nell’approccio di un dettato materno, che suscita il poeta, lo fa ex-sistere. Quanti interrogativi-stupori articolano le frasi in versi, gli incisi di Luzi. Quante non retoriche, o non semplicemente novecentesche, domande si affollano nel dispiegarsi di quei suoi sensi-suono: “Da dove, da che punto?/ da quale/ non identificato appostamento/ del desiderio o del rimpianto? Non è la memoria sufficiente./ E’ cieca l’antiveggenza./ Però le giunge forte/ arriva fino a lei quel canto-/ è quel canto/ o è la sua ansia?” Oppure questo verso che ha un che di supremo: “Alba, quanto fatichi a nascere!”.
L’ermetismo di Luzi è ermetismo non di maniera, non è chiusura, parola difensiva, soggettiva sia pure eticamente tale. Come in Ungaretti, la sua vocazione è all’aperto, al mondo e oltre. Il suo Ermes, il suo Daimon, non è l’anima reclusa, ma un viaggio vero. Il mistero così non è fumisteria, non è gorgo irrazionale mai. Il mistero al contrario è là dove ci chiama il chiaro, il semplice: “è questa l’opera/ che si compie ciascuno e tutti insieme/ i vivi i morti, penetrare il mondo opaco lungo vie chiare e cunicoli/ fitti d’incontri effimeri e di perdite/ o d’amore in amore o in uno solo/ di padre in figlio fino a che sia limpido”.
Mistero è il limpido. Mentre è tanto complicato arrivarci. Quanto “progresso spirituale” si richiede: “quante false immagini di sé un uomo si porta dietro […] quante parti s’impone di sostenere che invece non gli sono state assegnate! Un lavoro enorme lo attende per ritrovare il suo gesto, la sua voce”. E qui tocchiamo davvero il punto focale di una presenza letteraria che dovrebbe valere come un segna-via del nostro tempo. Luzi aveva lucidamente compreso che la mentalità ego-centrica dell’umanesimo aveva condotto allo iato tra io e mondo, al punto da sottrarre alla parola il terreno ontologico. Il tempo è così divenuto, a partire da lì, fuga in avanti, un dileguare. Il tempo deietto non poteva che portare ad una poesia della deiezione, a una visione del mondo della deiezione, con tutte le conseguenze di declino che Heidegger ha riassunto, nel suo linguaggio filosofico, con il temine di Occidente o meglio di destino dell’Occidente. Luzi, nei suoi scritti saggistici ha denunciato, con pacatezza e sicurezza, questa situazione, indicando come la nostra letteratura (da Petrarca in poi) sia affetta da un malinconico senso di assenza, e perdita (“fisso orfismo”). Uscire da questa situazione di soggettivismo (di cui il demonismo anche romantico e post-romantico è conseguente, pur potendo apparire una correttivo dello iato moderno) è fondamentale per recuperare un’idea dell’essere, e della parola creaturale, liberandola della riduzione a puro segno, come invece vorrebbe la moderna, appunto moderna, linguistica.
Il linguaggio è logos ontologico per Luzi, parola creatrice, come dice il vangelo giovanneo. La parola umana, e tanto più poetica, ha una matrice nel logos quale principio di in-formazione del mondo, di organizzazione del mondo, come se nel mondo agisse una lotta, come se nel suo “magma” un fine si facesse strada. La parola poetica, il suo respiro, deve farsi consapevole di una svolta necessaria (qui la concordia con Celan e Heidegger): per immergere la parola nella parola dell’essere, nella metrica geo-metrica della terra. Solo così si potrà uscire dalla crisi del moderno e da una lingua sorda al mondo, alla sua ri-sonanza.
Abbandonando il soggettivismo e aderendo ad un impianto dove la “creazione poetica non sia contro la creazione ma dentro la creazione […] ininterrotta ed aperta”. Su questa traccia, una svolta dovrà-potrà avvenire dove ontologia, eco-scrittura, e poesia si incontreranno. Ma la “naturalezza” è allora per Luzi la condizione da ritrovare, quella umiltà intesa come epoché, messa tra parentesi delle nostre misere proiezioni, per far posto al Reale, alla Natura, all’essere: “E’, l’essere. E’./ intero, /inconsumato,/ pari a sé./ Come è/ diviene./ Senza fine,/ infinitamente è/ e diviene,/ diviene/ se stesso/ altro da sé”.
Questa “ecologia della mente” e questa “fenomenologia” è quanto oggi in effetti sentiamo di più necessario e vitale, e che la condizione restaurata del poeta ci indica come una traccia: il poeta non ama e non sopporta il piedistallo […] essi finirebbero per creargli una vita indiretta, riflessa e lo separerebbero comunque dal terreno dove scorre la vita; egli ha bisogno di vivere nell’anonimo […] Egli giunge anzi per questo a non avere più una personalità distinta e a fondersi col processo indifferenziato dell’esistenza: in questa luce noi possiamo rileggere le parole della famosa lettera di Keats dove egli parla dell’impoeticità del poeta”.