Giorgio Vittadini, oltre ad essere il presidente della Fondazione per la Sussidiarietà, è ordinario di Statistica metodologica all’Università di Milano Bicocca: un uomo di numeri e di scienze esatte, ovvero quanto di più lontano si possa pensare dalla fantasia, dall’immaginazione, dalla sfrenata capacità creativa di uno scrittore come Giovannino Guareschi. Tutto ciò nonostante, però, Giorgio Vittadini ha, forse più di tanti critici letterari e di tanti studiosi, giornalisti e commentatori, compreso appieno quale sia l’essenza degli scritti guareschiani, quale sia la modernità di questo scrittore, snobbato per anni dalla critica ufficiale, ma amato da sempre dai suoi “ventitré lettori”.
Professor Vittadini, come le è nato questo “amore” per Giovannino Guareschi?
Sento particolarmente vicino questo grande scrittore perché parla dell’esperienza umana, e in particolare della capacità del cuore di percepire le cose reali e vere. Lo si capisce bene quando introduce la persona centrale del triangolo di Mondo piccolo, insieme a don Camillo e a Peppone: il Cristo. Lui dice “il Cristo è il Cristo della mia coscienza”. Sembra un’affermazione ironicamente soggettivista, invece è l’affermazione della coscienza dell’uomo in quanto capace di percepire nella sua profondità ciò che è vero, giusto e buono. Un bene che si presenta come suggerimento, fascino, bellezza e non imposto, proprio così come fa il Cristo nei suoi scritti. Questo è il fondo di quello che amo. Guareschi dipinge l’umano che è fatto di questa coscienza, che non è fatto di divisione manichea tra bene e male. Questo desiderio di bene che è in ognuno e che in ognuno si rompe, si frantuma, non è perfetto. Come si fa a non amare uno scrittore che descrive la realtà così?
Lei ha ideato, per il Meeting dell’Amicizia fra i popoli, edizione 2014, un accostamento che, sulle prime, si potrebbe definire azzardato se non impossibile: Guareschi e Jannacci, legati da quelle che anche Papa Francesco chiame “periferie esistenziali”. Qual è stata la ragione, la riflessione che l’hanno portata ad accostare i due autori?
Jannacci parla del barbone con le scarpe da tennis, del soldato Nencini, di Giovanni telegrafista innamorato, dell’uomo a metà, parla degli uomini che sono intorno a noi, ma di cui non ci accorgiamo. Li guarda in modo profondo, vero; nella loro irriducibile ricerca di significato, di felicità, di compagnia, sono come noi. Guareschi fa la stessa cosa con i personaggi del suo Mondo piccolo. Non a caso uno ha parlato di Mondo piccolo e l’altro di Roba minima, entrambi ironizzando su se stessi… Anche quelli di Guareschi sono personaggi apparentemente marginali: Giobà, Romeo e Giulietta, Giacomone, la vedova del decimo clandestino… Personaggi dotati di una profondità, di una verità, immensa, anche se sono marginali per la società, anche se non sembrano importanti. Entrambi non parlano sui loro personaggi, ma li fanno parlare e facendoli parlare, parlano di ognuno di noi. Nelle canzoni e nei racconti. Per questo sono profondamente simili nella loro diversità e ci dicono qualcosa che non è una periferia ma il centro.
Lei ha definito Guareschi uno “scrittore caravaggesco”, cosa significa questo parallelo fra un artista ed un letterato così distanti fra loro nel tempo?
Guareschi è stato conosciuto in tutto il mondo grazie ai film, che sono belli, ma come lo stesso Guareschi sottolineava con i suoi continui scontri con produttori e registi, non rendevano il suo mondo, perché erano film in bianco e nero. Non nel senso che mancava il colore, ma sono incentrati su estreme semplificazioni, su contrasti netti tra bene e male, su macchiette. Guareschi invece è un autore caravaggesco perché ogni personaggio, come in Caravaggio, è luci e ombre insieme, bene e male, grandezza e miseria. Nei racconti prevalgono le sfumature e mai superficialità banali. Infatti non si è mai finito di coglierli. Si può usare una frase di Tomas Mann: “insondabile è il mistero dell’uomo”, insondabile è il mistero che nella vita quotidiana appare nei personaggi che descrive. E’ il contrario del caricaturale, del superficiale, del macchiettistico, perché descrive il profondo, quello che si annida sotto le maschere di cui i suoi personaggi, come noi, cercano di rivestirsi, quasi impauriti che qualcuno possa vedere la loro ferita profonda.
Per lei Giovannino Guareschi era non solo moderno, ossia uno scrittore del 2015, ma addirittura proiettato nel futuro. A quasi cinquant’anni dalla sua morte, come può il papà di Peppone e don Camillo essere definito addirittura futuribile?
Perché il valore dell’esperienza è qualcosa che abbiamo appena iniziato a scoprire. Guareschi scrive negli anni Cinquanta, quando sembra che la modernità della Chiesa sia il progressismo contrapposto al conservatorismo. Due schemi, due manierismi, due rigidità, due forme che prescindono dall’uomo. Guareschi invece parla dell’esperienza personale, la stessa di cui parlava don Luigi Giussani fin dagli anni Cinquanta, cioè della capacità di ogni coscienza personale di cogliere la verità nella realtà. In altre parole, la corrispondenza tra il proprio bisogno e qualcosa che si vede, in un ambiente, in una persona o in un popolo, persino in un oggetto o in un animale. Ma soprattutto in un Cristo che ti parla da un crocifisso apparentemente inerme; oppure dal profondo di ciò che capita, di ciò che si incontra, perché costituisce la natura di quella realtà misteriosa e affascinante in cui si vive. E’ qualcosa ancora tutto da scoprire, perché siamo appena usciti dal mondo delle ideologie. L’ideologia finanziaria, l’ideologia politica, quella delle verità cadute dall’alto che prescindono dall’uomo e che insinuano che tutto sia relativo, contingente, senza un valore oggettivo. L’esperienza che ci racconta Guareschi è ciò che rende possibile a uomini comuni, apparentemente insignificanti, di essere felici, di vivere in pienezza la propria umanità, di vivere di cose piccole, senza aver bisogno di potenti che lo validino o lo permettano. E’ la rivincita dell’uomo che riscopre che la realtà è affascinante, piena di promessa e di mistero e che nessuno può alienarci, se non noi. Per questo Guareschi, come d’altro canto anche Jannacci, non solo ha anticipato il suo tempo, ma si può addirittura definire post-moderno, perché ha intuito che questo è il modo di camminare in un mondo in cui tutto è da riconquistare sul piano personale. Questa è la sfida dell’uomo post-moderno, lontano sia dal dubbio sistematico che dalle certezze, anche religiose, a-prioristiche, imposte dall’alto e che non siano passate dalla conquista della sua libertà.
Per concludere, fra gli scritti di Guareschi, qual è il preferito di Giorgio Vittadini?
Tre grandi raccolte: Mondo piccolo, il Corrierino delle famiglie, Il destino si chiama Clotilde. Quest’ultimo è il Guareschi-Ionesco, il grande scrittore dell’assurdo; il Corrierino delle famiglie è l’affetto quotidiano proiettato sul piano universale; Mondo piccolo è il mondo in cui ci sono i personaggi più toccanti, più feriti: come l’episodio del figlio che odia il padre tutta la vita perché non si è mai sentito considerato da lui, ma quando il padre muore, scopre invece che lo ha amato profondamente, e per tutta la vita ha seguito e segnato tutto quello che lo riguardava; il contadino rovinato ne Il canalaccio che, invece che odiare il padrone che l’ha vessato, ha “pietà per la sua carne maledetta”; la vedova de Il decimo clandestino che fa tornare in vita la madre dell’unico figlio che ha perso; Giobà, lo scemo del paese che in realtà è il più vero perché riesce a non farsi condizionare per il senso della sua dignità. I personaggi che amo di più comunque sono i bambini. Come quello della fiaba di Santa Lucia o quello che prega Gesù perché faccia rinsavire il padre violento, poi gli ruba le amlire e alla fine inizia un dialogo con Gesù. O i personaggi che perseguono fino in fondo i desideri veri, come i nuovi Romeo e Giulietta, o come la figlia dei ricconi che va ballare alla festa dell’Unità, o i vecchietti girovaghi che non vogliono finire all’ospizio e per questo cominciano a lavorare insieme, in cooperativa, come non hanno mai fatto prima. Personaggi che ci raccontano la grandezza del nostro popolo, che è un popolo fatto di “io”, che rifuggono dai grandi eroi, dai grandi generali, dai grandi politici, dai grandi principi e portano la grandezza in una quotidianità piena di luce e mistero. E come ha fatto sempre Giovannino non si assoggettano a un potere che li vuole omologare: “Non muoio neanche se mi ammazzano”.
(Egidio Bandini)