Da sempre, la figura di Andreotti è stata una delle più dibattute e controverse nella storia del nostro paese. E’ stato, in effetti, il politico più longevo dell’Italia repubblicana, probabilmente amato più dal popolo che dalle élites, ascoltatissimo in Vaticano, ambizioso e prudente, umile e aperto al dialogo: è naturale che su un simile personaggio si sia detto e scritto di tutto. Ammiratori o detrattori, a seconda delle occasioni, lo hanno osannato o condannato non sempre con la necessaria serenità e seguendo criteri logici solo a tratti condivisibili.
Non è il caso del libro che presentiamo, scritto a due mani da Paolo Gheda e Federico Robbe, il quale — frutto di un lavoro archivistico minuzioso e certosino, che ha incrociato fonti “romane” a documentazione locale — ricostruisce i fatti col rigore scientifico dello storico, senza cadere in diatribe sterili fagocitate spesso da pregiudizi perniciosi. Scopo del volume è approfondire un tassello dell’inizio della carriera politica del “giovane Andreotti”, al momento del primo incarico di peso della sua lunga carriera politica, cioè quello di sottosegretario di Stato alla presidenza del Consiglio, tra il giugno del 1947 e il gennaio 1954. Fu un momento cruciale e carico di responsabilità per il ventottenne Andreotti, che si trovò a gestire, tra le altre cose, il rapporto tra Roma e le aree di frontiera in un’Italia disagiata e attraversata da fratture linguistiche, etniche e culturali che la ferocia della guerra aveva drammaticamente acuito. Alla base del lavoro c’è proprio la domanda, articolata in altri interrogativi ad essa legati: quale fu il rapporto tra Andreotti, il politico «romano» per eccellenza tanto dal punto di vista geografico quanto da quello istituzionale, con l’Italia di confine nel periodo 1947-1954?
Si tratta, nel complesso, di una tematica nuova e originale, spesso soltanto evocata dagli studi precedenti. Scandagliare, come fanno gli autori, l’attività del giovane politico romano contribuisce indubbiamente a far luce sul personaggio e sull’uomo stesso “Andreotti”, in una fase in cui il suo mito era ancora ben lungi dal modellarsi. Una prima grande utilità del volume è proprio questa: restituirci l’uomo, con le sue idee e i suoi principi, ma anche con i suoi limiti e le sue debolezze.
Così, se veniamo a scoprire che la propaganda di italianità fu uno dei pilastri dell’attività andreottiana nelle aree di frontiera, senza per questo mai scadere nella retorica nazionalista, fermo com’era ad un principio di pragmatismo scevro da qualsivoglia ideologia, ci sorprendiamo forse un po’ nel sapere anche che, il 30 maggio 1947, quando venne a conoscenza della nomina, annotava con malcelata inquietudine sul suo diario: “Sarò capace? De Gasperi mi dice che mons. Montini ne è molto contento. Torno a casa turbatissimo” (p. 266).
Insomma, uno studio che rappresenta al contempo un utile strumento di conoscenza di aspetti per nulla secondari della nostra storia nazionale, e una sorta di biografia che da conoscenze particolari ci restituisce dimensioni e punti di vista più generali.
La mole consistente di materiale archivistico utilizzato, ed è il secondo grande merito del volume, ha permesso poi di rivedere posizioni che da tempo la storiografia aveva dato per assodate. È il caso, per fare un solo esempio, della lotta segreta al comunismo nel martoriato confine del Nord-Est, al contributo (anche finanziario) della quale la figura del giovane politico è stata sovente associata. Proprio l’incrocio tra documentazione di diversa provenienza ha aiutato a fare un po’ di chiarezza sia sulla genesi delle sovvenzioni che sulla loro incidenza. Non solo l’entità di tali finanziamenti è stata drasticamente ridimensionata rispetto a quanto si era sempre creduto in passato, ma si è messo anche in luce come nella gestione generale di Andreotti prevalse di gran lunga il pragmatismo e la tattica sul disegno strategico di ampio respiro e sulla volontà di far crescere la tensione, secondo una consueta logica di responsabilità. E’ solo un esempio, si è detto, di una metodologia di fondo complessiva dell’intero lavoro: in effetti, ciò che colpisce leggendo il libro è la frequenza dell’utilizzo di espressioni del tipo “come si è a lungo creduto” nell’introdurre le diverse tematiche, per poi rettificarle alla luce delle fonti. È il segno di un’inversione di metodo nell’approccio alla ricostruzione storica: non sono i fatti che devono piegarsi alle idee, ma le idee devono piegarsi ai fatti.
Declinata in mille rivoli, è questa costante ricerca della verità ad emergere come impianto generale del volume e a segnare un’indicazione di metodo imprescindibile che, in special modo per figure così complesse come quelle di Andreotti, sarebbe forse il caso di estendere anche a vicende più recenti che lo hanno visto protagonista. D’altro canto, come concludono gli autori, identificare totalmente Andreotti con il potere non è più sufficiente per comprendere; perché Andreotti è stato anche molto altro: la difesa delle istituzioni, il richiamo alla responsabilità, il rispetto per l’altro, l’aiuto alla Chiesa in contesti drammatici. L’accento sulla simbiosi con il potere, di per sé, non basta a comprendere le tante sfaccettature di una figura così eterogenea. E questo vale per lui come per qualsiasi altro uomo politico della storia.
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Paolo Gheda. Federico Robbe, “Andreotti e l’Italia di confine. Lotta politica e nazionalizzazione delle masse (1947-1945)”, Guerini e Associati Editori, Milano 2015.