“Dobbiamo ritornare a spezzare il pane della parola”. Con questa felice immagine, l’amico Stas’ Gawronski, critico letterario e autore televisivo della Rai, illumina il rapporto tra l’uomo e l’arte, riportandolo di getto dentro l’alveo di una comunione vissuta. E lo fa parlando di una scrittrice a lui molto cara, proprio quella Elena Bono che al tempo della sua gioventù anagrafica e artistica aveva combattuto e vinto la battaglia contro le illusioni dell’ermetismo e della parola ridotta a puro suono, riscoprendo il primato della realtà e riaffermando “l’identità della parola con se stessa”. 



La poesia, come la musica e tutte le altre forme di espressione artistica, ha senso se è esperienza viva, rapporto generativo tra l’opera che offre se stessa e noi che ce ne nutriamo, che appunto spezziamo il pane. Al di fuori di questa fecondità vi sono solo i discorsi, che al netto delle riflessioni sull’esperienza e quindi inviti a riviverla, relegano l’arte nella lontananza del mito o nello schematismo dei canoni ufficiali, sacri o profani che siano. 



Un chiaro esempio ci è offerto proprio dalla Bono, poetessa e scrittrice ritenuta tra le più grandi del Novecento italiano, e dall’iniziativa editoriale che l’ha riportata all’attenzione del vasto pubblico. Immediatamente a valle dell’uscita presso Marietti del suo racconto-capolavoro La moglie del Procuratore e della miscellanea di saggi a lei dedicata Quando io ti chiamo, ha preso il via una serie di iniziative che, mentre presentano la figura e l’opera della scrittrice, rimettono al centro il binomio arte-esperienza. Non è casuale infatti che i sette incontri di presentazione svoltisi finora in diverse città abbiano dedicato uno spazio significativo al reading dell’opera, trovando poi una suggestiva eco in due diverse produzioni teatrali basate su testi della scrittrice; dapprima con uno spettacolo della compagnia ligure “Il portico di Salomone” (Elena Bono era adottiva di Chiavari) e, successivamente, con la lettura scenica de La moglie del Procuratore in due rassegne in Toscana (il “Certosa Festival” di Calci e il “Risonanze Festival” di Montaione, con la regia di Salvatore Ciulla). 



La lettura scenica in particolare, nel suo offrire la parola “nuda” del testo senza nessuna scenografia o altro additivo da palcoscenico, trasforma lo spettacolo in “liturgia della parola”, seppur facilitata in questo caso dalla trama (la Passione di Gesù nel racconto della vedova di Pilato, appunto la moglie del procuratore). La parola è stata dunque “spezzata”, e il contraccolpo di commozione che puntualmente si è rinnovato ci aiuta a capire qualcosa in più dell’arte e di noi stessi. 

La poesia, come direbbe la stessa Bono, porta l’uomo “altrove”, fino a far fluire lacrime di gioia. E da questo viaggio “fuori di sé”, dal dolce naufragio di leopardiana memoria, ritorna un io più profondo, arricchito di una bellezza e di un significato prima sconosciuti. Secondo il teorico della letteratura Michail Bachtin, il romanzo è il genere della “metamorfosi”, di quel cambiamento di sé che il lettore, se disponibile al “viaggio”, sperimenta. 

Ecco allora che si riafferma una volta di più il valore dei classici della letteratura, ai quali appartiene di diritto la poetessa di Chiavari. È l’accadere, il riaccadere di quello svelamento di sé in rapporto con l’opera, quell’approfondirsi di conoscenza in una relazione viva e personale, non mediata. Leggere o ascoltare un classico è dunque uno sguardo non all’indietro verso oggetti imbalsamati, ma proteso in avanti verso qualcosa di intuito e non ancora posseduto, verso un me stesso sconosciuto e che pure mi appartiene. A far da suggestiva eco a questa esperienza ci viene in aiuto l’adagio di san Paolo, che si trova dipinto su una delle innumerevoli pareti della stupenda Certosa di Calci. Sic currite ut comprehendatis: “Mi protendo nella corsa per afferrarlo”. Aggiungiamo: “Io che sono già stato afferrato”.