La tesi del nuovo libro di Maurizio Ferraris, uscito da Laterza col titolo jüngeriano di Mobilitazione totale, non è certo una tesi nuova, almeno considerata nel suo assunto metafisico di fondo, e cioè che gli esseri umani sono esseri “dipendenti”. Ma l’autore fa leva su questa dipendenza per espungere da essa proprio il senso metafisico della provenienza degli individui da un altro che dia loro l’essere, senza però accontentarsi nemmeno di una dipendenza nell’ordine delle mere cause biologiche o nell’ordine della produzione sociale. Egli intende interpretarla, tale dipendenza, in un senso puramente “ontologico”, lì dove l’essere di quella realtà che ciascuno di noi è (e che siamo noi tutti in un mondo sociale condiviso), non sta tanto nell’esser-creati o generati o causati, ma nell’esser semplicemente “registrati”. Il termine va preso nel suo significato letterale, come quando la nascita di un individuo viene, appunto, registrata all’anagrafe del Comune: non è che tale atto di registrazione, ossia tale documento, origini la sua esistenza, ma fa “emergere” la presenza e il senso effettivo del suo esserci. Quel senso duro, da cui dipendono tutti gli altri possibili sensi dell’io e del mondo.



In ogni registrazione documentale si realizza allora questa “emersione” del mondo sociale dal mondo naturale, che oggi avviene nella sua forma più “assoluta” attraverso la rete — non in senso traslato o simbolico, ma proprio nel senso effettuale e tecnologico del web —, in cui non solo è espressa, ma è strutturata e quasi sostanziata la realtà sociale. Il web è un assoluto ontologico nel senso che non è il mero prodotto di una costruzione sociale, ma è ciò che precede e rende possibile ogni costruzione. In altri termini, la rete — «ciò che non è legato a nulla, tranne che all’elettricità» — manifesta quel punto non controllabile della nostra stessa natura umana e sociale, che costituisce il senso più radicale ma anche più enigmatico della nostra finitezza.



Il fatto che noi siamo esseri finiti, per Ferraris, sta dunque a dire innanzi tutto che siamo, non occasionalmente, ma ontologicamente a disposizione di un “dispositivo” tecnologico che ci mobilita permanentemente, che ci chiama appunto ad essere – la vocazione ontologica dell’homo tecnologicus – ma che fino a un certo punto siamo noi, o anche il potere culturale o economico o tecno-scientifico a costruire, a gestire e a poter controllare. In ogni momento siamo agli ordini di un apparato che ha le sue “armi” proprie, come smartphone o tablet, che, anche solo mediante il segnale di arrivo di una mail o di un sms, ci ingiungono: «Dove sei? Presentati, agisci!». 



Ma tutto ciò non è appena l’esito di un condizionamento tecnico e sociale. In esso si rivela un’essenza più profonda. Noi dipendiamo da un livello di non facile accesso, da un’oscura realtà, «la grande attività fondamentale (…) inconscia», la quale «riguarda forze di cui noi non abbiamo nozione», ma che si rendono note nell’apparato tecnologico. 

La nostra finitezza consiste nell’essere assegnati a quell’apparato di documentazione e di registrazione attraverso cui siamo tracciati e permanentemente rintracciabili nei nostri profili individuali, come nei nostri luoghi, nei nostri tempi, nelle nostre intenzioni.

Di questa struttura micro-fisica della società, come un dispositivo anonimo da cui tutti saremmo inevitabilmente gestiti, nelle nostre menti come nei nostri corpi, si parla da diverso tempo nella critica filosofica militante che si rifà alla “biopolitica” e al nesso strettissimo tra il sapere tecno-economico e il potere sociale (da Michel Foucault a Giorgio Agamben a Roberto Esposito); ma Ferraris vuole portare in un’altra direzione la sua riflessione, sia riguardo all’origine che alle prospettive future di questo fenomeno.

In linea con il “nuovo realismo” proposto nei suoi precedenti saggi, e che vuole distanziarsi sia dalla linea costruttivista (tutto è comprensibile attraverso interpretazioni socio-culturali) sia da quella decostruttiva (si può venire a capo di un senso solo smontando a pezzi il dispositivo del potere), l’origine di questa dipendenza viene intesa da Ferraris come la realtà di un potere assoluto dal quale noi deriviamo e a cui apparteniamo, e che resta come un grumo di realtà irriducibile e ineludibile. 

Non a caso Ferraris sostiene che forse più di tutti è stata la dottrina cattolica del “peccato originale” ad avvertire questo fondo abissale di realtà (sino a definire, non senza una civetteria trasgressiva, l’opera di un pensatore controriformista come Joseph de Maistre più rilevante riguardo alle «conseguenze sociali del peccato originale» rispetto al Capitale di Marx). Ma per usare qui il termine di “peccato originale” lo si deve enucleare nella sua assolutezza, senza riferirsi alla grazia o alla salvezza, vale a dire facendo a meno di quel rapporto con il Padre dalla cui rottura è nata la stessa idea cristiana del peccato d’origine. 

E di qui parte anche una proposta per le prospettive aperte a questa realtà della dipendenza assoluta, che Ferraris ci tiene a non intendere come una mera “alienazione” (ancora sulla scia di Foucault & C.), ma addirittura come possibilità di emancipazione, di liberazione, di appropriazione. Ma a chi mai sarà possibile questo? E come? Per restare nel tema: cosa prenderà il posto e la funzione secolarizzata della grazia? La risposta di Ferraris è che questa è l’opera e l’impegno liberatorio della cultura, la quale proprio assumendo le in(de)finite possibilità messe a disposizione dal web per un numero sempre più ampio di persone — cioè proprio assumendo il potere assoluto come chance e non come mera soggezione — può immaginare una trasformazione e una strategia per allontanare la morte, vale a dire la mancanza del senso dell’esistere.

Alla domanda che, nell’Antonio e Cleopatra di Shakespeare, la regina rivolge a Enobarbo — «Che cosa possiamo fare?» —, questi risponde: «Pensare e morire». È la formula con cui Ferraris compendia la sua idea di un’emancipazione culturale: al dispositivo da cui emergiamo non ci si può (né ci si deve) sottrarre. Esso va solo pensato per liberarsi dagli idoli del potere, cioè dalla pretesa di poter cambiare la realtà con le nostre buone o cattive intenzioni, sia individuali che sociali. Non per conservare l’esistente (si affretta a precisare l’autore), ma per “secolarizzarlo” e demitizzarlo.

Resta però come l’impressione che Ferraris, pur avendo teso l’arco del problema nella sua istanza ultima — che vuol dire che dipendiamo da qualcosa che può farci non perdere, bensì guadagnare noi stessi? — nello scoccare la sua freccia rischi di mancare il vero bersaglio. Starei per dire che la soluzione che egli offre non è forse all’altezza dello stesso problema che aveva posto. Ma occorre ricordare che, in filosofia, è proprio l’apertura dei problemi ad essere la cosa più importante.