La montagna desta una grande attrattiva. Chiunque, salito in quota, non può non guardare le vette, attirato da qualcosa di misteriosamente grande. Don Luigi Maquignaz, dodicesimo di 14 figli, nato in una famiglia religiosa, sacerdote ottantacinquenne di Aosta, ha raggiunto la cima del Cervino (di cui oggi ricorrono i 150 anni dalla prima ascensione, effettuata dalla cordata di Edward Whymper e Michel Croz) per ben 39 volte e ne conosce il fascino. Lo abbiamo incontrato a Cervinia, luogo a cui è molto affezionato.
Don Luigi, lei è un uomo di montagna, ci aiuti a guardare le vette. Perché ne siamo attratti?
Sono della Valtournenche e sin da ragazzo salivamo al Breuil (ora un aggregato di case di Cervinia), dove c’era la casa degli zii. Cervinia non esisteva, era un alpeggio, frequentato da maggio a settembre. Sin da bambino la montagna mi attraeva naturalmente, ma ho capito bene la questione quando per cinque anni ebbi la fortuna di accompagnare Giovanni Paolo II sulle montagne della Valle d’Aosta. Il Papa stava davanti alle cime, ai ghiacciai, alle cascate, anche per delle ore e diceva che le montagne sono la prima rivelazione di Dio. Dunque il ragionamento è semplice. Ho capito che mi attirano perché l’uomo è attratto naturalmente verso Dio. Tutti desiderano un po’ di felicità e il Papa nel 2000 disse che chi cerca la felicità, cerca Gesù, anche se non lo sa, perché solo Lui può riempire il cuore di ognuno. Io sono un uomo felice e la mia felicità è Gesù. Lui ha fatto queste meraviglie, per dirmi quanto è grande. In esse c’è la Sua presenza, ecco perché ne siamo attratti.
Se non fosse stato prete?
Avrei fatto la guida, come tanti qui. A proposito della presenza di Dio, ricordo una persona che non credeva, che portai sui due Jumeaux, nel gruppo delle Grandes Murailles, a 4mila metri, il quale mi disse “qui il tuo Dio esiste”; un portatore che aveva accompagnato Edward Whymper nella prima scalata del Cervino (14 luglio 1865, ndr) ricordo che aveva detto: “qui si sentono cantare gli angeli”.
Come ha cominciato?
Imitando i più grandi. Al paese c’era una roccia appuntita con sotto circa 70 metri di vuoto; si arrivava in cima con gli zoccoli (avevamo solo quelli), ci si metteva in bilico su una gamba, contando chi resisteva di più. Insomma un pericolo da farsi fuori.
Quante volte ha scalato il Cervino?
Trentanove volte; la prima il 4 ottobre 1946, in una giornata bellissima. Avevo 17 anni e la mia mamma non voleva. Venni a dormire al Breuil dalla zia e con altri due partimmo alle 4 del mattino e alle 10 eravamo in vetta. Alla sera cenai da mia zia e poi tornai a casa; appena entrato mia mamma mi disse “hai scalato il Cervino!”. Se ne accorse perché ero bruciato dal sole. Un’altra volta, appena ordinato prete, aprii con altri una nuova via, con grandissima soddisfazione.
Nel 1961, in occasione del centenario dell’Unità d’Italia, dicemmo messa in vetta. Giovanni Paolo II ci disse che l’avevamo fatto nella più bella cattedrale del mondo. L’ultima volta è stato a 69 anni. Quando ero viceparroco in cattedrale ad Aosta avevo il lunedì libero e tante volte partivo la domenica sera con la moto, arrivavo a Cervinia, a piedi andavo a dormire all’Oriondé, per poi alle 2 del mattino salire in vetta. Alle 20,15 tornavo ad Aosta per il Rosario. Ma avevo 25 anni.
Ma è una tradizione di famiglia?
La mia famiglia possedeva l’alpeggio più alto, dove ora c’è il rifugio Oriondé-Duca degli Abruzzi, per cui è consuetudine che chi ha la proprietà più alta, possegga la vetta. Da lì mio nonno e due zii, nel 1865, partirono una settimana dopo Carrel (il primo scalatore arrivato in vetta dalla via italiana) e percorrendo tutta la parte italiana arrivarono in cima.
E la cima?
In cima c’è una croce. Nelle giornate belle si vede il Monviso, tutto il gruppo del Rosa, le Alpi svizzere e quelle francesi. Al mattino l’aurora e meravigliosa: una cosa indescrivibile.
Cosa si impara lassù?
In montagna si impara ad essere attenti agli altri e tutti sono uguali. Si condivide tutto, è una grande scuola. C’è anche la sfida, soprattutto quando si è giovani. Superare te stesso, vincere l’ostacolo. La prima volta tornando indietro mi voltavo, lo guardavo e dicevo “ti ho vinto”.
C’è anche la paura di morire?
Si può morire dovunque, per strada basta una macchina. In montagna non bisogna però mai fare imprudenze. Ricordo una volta, eravamo arrivati davanti al “lenzuolo” (una lastra di ghiaccio coperta di neve, molto ripida, ndr) e la notte aveva nevicato, per cui il ghiaccio era ricoperto di due centimetri di neve fresca. Dissi a due tedeschi di passare più in alto attaccati alla roccia, ma mi risposero di non impicciarmi. Dopo dieci metri uno scivolò e tirò giù l’altro. Uno volo di 800 metri. Un’altra volta in prossimità della “Capanna” incontriamo 3 italiani; due ci dicono di aver sofferto tanto freddo, mentre pensavano che l’altro dormisse e non avesse problemi. Era morto congelato. Non si può dormire fuori a quelle altezze.
Ha fatto la guida?
Sì, anche per raccogliere qualche soldo; per tutta l’estate si mangiava polenta e latte, la carne era un cibo raro. Catturavamo le marmotte. Ho portato su tante persone e alcuni non hanno il senso del limite. Una volta guidavo uno che soffriva di vertigini e non lo voleva riconoscere. L’ho legato bene e in un passaggio ripido è caduto per qualche metro. Si è convinto e siamo tornati indietro.
Una volta scalare era un’impresa?
Oggi siamo dei signori e l’attrezzatura è splendida. Negli anni 50 si usavano le corde di canapa, pesanti, che si impregnavano d’acqua. Ricordo che c’era stato un grave incidente e la guida era morta, mentre era sopravvissuta la donna accompagnata. Feci parte del soccorso. Era un’americana che l’anno dopo venne a trovarci e ci regalò la corda di nylon, leggera, flessibile, che non ha problemi con l’acqua. Nel 1953 ognuno aveva solo 10 chiodi nello zaino perché pesavano 2/3 etti. L’ultimo della cordata li sganciava e li passava al primo con una cordicella per ripiantarli. Roba dell’altro mondo.
Prete da quando?
Dal 1953. La mia vocazione inizia subito, quando mia mamma mi portava alla messa alle 6 del mattino. Guardavo il sacerdote che teneva l’ostia consacrata e pensavo che sarebbe stato bello tenere Gesù nelle mani. Dopo le elementari entrai in seminario: il ginnasio, il liceo e la teologia. Ma a un certo punto entrai in crisi. Non ho mai messo in dubbio Dio, perché con le montagne davanti non si può, ma la mia difficoltà era dirgli di sì. Mi sembrava che far la guida in montagna fosse molto più interessante che fare il prete.
E quando decise di farsi prete?
Un episodio mi cambiò la vita. Avevamo fatto la via Furggen ed eravamo in vetta al Cervino alle 10. Stavamo scendendo e a quota 4100 trovammo un ragazzo di Torino con le mani che sanguinavano attaccato alla roccia e, 25 metri sotto, appeso alla corda, penzoloni, un altro. Lo tirammo su accanto al suo compagno. Il primo aveva freddo, gli diedi la mia giacca. Il mio amico scese al rifugio con l’altro ragazzo, che però stava meglio, a dare l’allarme, e io rimasi solo con lui. Mi resi conto che sarebbe morto e così gli dissi se voleva dire l’atto di dolore. “Non voglio morire” mi rispose. “Noi facciamo possibile per salvarti — replicai — se per caso muori, vai di là con il passaporto firmato”. Pregammo e io dissi l’atto di dolore più bello della mia vita. Lui mi disse di salutare e di chiedere perdono alla sua mamma e mi citò il nome di una ragazza. Dal rifugio arrivarono due guide esperte e così riuscimmo a legarlo e a trasportarlo. In vista della capanna le sue forze diminuivano e le guide più vecchie mi dissero di raccomandargli l’anima. Poco dopo morì, lo coprimmo con un telo per proteggere il corpo dai corvi e scendemmo al rifugio. Quella sera a cena (non avevamo toccato cibo dalla mattina) sentivo dentro di me due gioie; ero orgoglioso perché avevo fatto la via Furggen così giovane, ma la seconda era più grande e più profonda; quel ragazzo era andato in paradiso. Quella sera capii che mi dovevo fare prete. Il sacerdote è un uomo come gli altri, che si sente amato da Gesù; ha un privilegio: questo amore lo può donare agli altri. Chi ama rende felice gli altri e fa felice se stesso. Io, ripeto, sono un uomo felice.
Lei ha anche conosciuto don Luigi Giussani?
L’ho incontrato nel 1964, un’anima che ha accolto Gesù nella propria vita. Quando il Signore lo ha toccato dentro, non è stato più fermo. Dopo averlo incontrato, anch’io ho cominciato a fare il raggio a scuola. Sono arrivati da tutte le classi; prima il raggio, poi la messa. Quando sono stato trasferito in una parrocchia di periferia, in un quartiere difficile, quel gruppetto mi ha aiutato e così è nato il movimento di Cl ad Aosta. Ricordo gli esercizi spirituali e quelli dei preti, mentre al Meeting non sono mai andato. Troppa gente. Con Giussani facevo delle grandi chiacchierate, si parlava di due-tre cose del movimento, poi soprattutto di Gesù. Era un uomo innamorato di Gesù, dai suoi occhi spruzzava la fede, era un godimento.
Torniamo ancora a Papa Giovanni Paolo II. Lei lo ha accompagnato in montagna per diversi anni…
Per cinque anni, sostituendo un sacerdote che non poteva. E’ stata una delle esperienze più belle della mia vita. Sono rimasto colpito dalla sua umiltà. Si andava in montagna tutti i giorni, dalle 8 sino a sera, anche con la pioggia. Lui camminava due-tre ore e per la strada si diceva il rosario. A pranzo cuocevamo la pasta sul posto. Qualche volta mi diceva di dire l’Angelus e poi si riposava in una tenda. Dopo il riposo leggeva e spesso parlavamo. Voleva sapere il nome dei ghiacciai e delle montagne e i vari percorsi e i tempi di percorrenza. Spesso gli raccontavo le barzellette e lui rideva, rideva.