Danilo Kiš (1935-1989) viene oggi unanimemente celebrato quale uno dei maggiori narratori balcanici del Novecento. Il suo capolavoro è costituito dalla cosiddetta trilogia familiare, composta dal romanzo Giardino, cenere, dall’antologia di racconti Dolori precoci, e dal romanzo Clessidra (tutti editi in Italia da Adelphi), aventi come fulcro le sofferte vicende della sua fanciullezza. Però, a mio avviso, il suo libro più peculiare e intimo resta la raccolta di nove testi brevi intitolata Enciclopedia dei morti: opera fantasiosa quante altre mai e giocata intorno a un basilare tema metafisico, se è vero che — come peraltro ebbe a sottolineare lo stesso autore — a partire dall’epopea di Gilgamesh, la questione della morte è uno degli ambiti ricorrenti/ossessivi della letteratura, e non solo di essa.



E giusto all’Enciclopedia si possono senz’altro collegare i sette racconti ritrovati fra i manoscritti inediti dell’autore (stesi fra il 1980 e il 1986), recentemente tradotti e pubblicati sempre da Adelphi sotto il titolo de Il liuto e le cicatrici. Tale scelta deriva dal fatto che — ci ricorda la curatrice Mirjana Miocinovic — Kiš diede a due delle sue tre raccolte di racconti il titolo d’uno di essi. Comunque sia, il testo narrativo che mi sembra in maggior misura felice e allusivo rispetto a quella che sarà la sorte del suo autore rimane il primo di quest’antologia postuma, ovvero Il senza patria, ambientato nella Parigi del 1938 e avente per protagonista, non certo a caso, uno scrittore apolide (alla pari del nostro, il quale nel 1979 inizierà il suo “esilio joyciano”), destinato a morire nella capitale francese proprio come poi accadrà allo stesso Kiš.



Nel racconto in questione non si parla solo di un drammatico destino individuale, ma pure della tragedia collettiva che sta per abbattersi sul mondo intero e in primo luogo su “un’Europa nervosa e prostrata, dove la gente si radunava per le strade, sotto i balconi, ad ascoltare i tribuni e i demagoghi, dove gli eserciti marciavano a passo di parata e le folle urlavano negli stadi”. Analogamente, nel secondo racconto, Jurij Golec, esilio più o meno coatto, cosmopolitismo e singole sradicate esistenze traggono origine da eventi storici epocali; come accade alla coppia Noemi-Jurij, conosciutisi in Polonia “dopo che entrambi eravamo usciti dal lager. Lei da un lager russo, io da uno tedesco”.



Fortemente autobiografico è invece il terzo racconto, Il liuto e le cicatrici, che vede Kiš studente universitario a Belgrado incontrare un altro eccentrico duetto matrimoniale, costituito dagli anziani (e debitamente esuli) coniugi russi Marija e Nikolaj. Lei è molto riservata, con delle “terribili cicatrici sul corpo”, e ha trascorso “una vita dura. Molto dura”. Lui, assai più loquace della moglie, si ricrea suonando il liuto e per il giovane futuro autore iugoslavo rappresenta una sorta di filosofo naturale. 

Mirabili/memorabili paiono infatti le sue considerazioni sul significato della letteratura, che Kiš fa proprie. Chi scrive — nota a tale proposito condivisibilmente Nikolaj/Danilo — “deve osservare la vita nella sua totalità. Deve far intravedere il grande tema della morte perché l’uomo sia meno superbo, meno egoista, meno malevolo e, d’altra parte, deve dare un senso alla vita. L’arte è l’equilibrio di queste due visioni contraddittorie. Il dovere dell’uomo, soprattutto dello scrittore, è di andarsene da questo mondo lasciando dietro di sé non l’opera, tutto è opera, ma un po’ di bontà, un po’ di conoscenza. Ogni parola scritta è come l’atto della creazione”.

Dopo il breve testo: Il maratoneta e il giudice di gara, sospeso tra il surrealismo melanconico che scaturisce dalla visionarietà onirica del protagonista e il crudo realismo del suo risveglio in un gulag siberiano, troviamo una narrazione ambientata nella ex-Jugoslavia di Tito durante gli anni del secondo dopoguerra mondiale, dove un improvvisato poeta conosce un lungo periodo di detenzione per aver composto un sonetto “contro il Partito e il Governo”. Né uscirà distrutto, solo dopo un’abiura consistente nello stendere dei versi inneggianti alle magnifiche sorti e progressive del comunismo.

Infine il racconto più elegiaco e carico di pietas (tralasciando l’ultimo testo dell’antologia, a mio avviso: scritto marginale di non eccelsa prosa), intitolato Il debito — un omaggio all’amato collega Ivo Andric —, in cui è narrata la sofferta ma serena agonia dello scrittore che, morendo, vuol rendere omaggio a quanti durante la sua parabola esistenziale gli hanno elargito soccorso, insegnamento e conforto. Ennesima sottolineatura di come morte e vita siano facce della stessa medaglia e di come, anche patendo la prima, l’uomo possa celebrare con gratitudine la seconda: “Perché in principio fu l’amore”.