Era il settembre del ’43 quando il generale Badoglio firmò l’armistizio con gli Alleati e il re scappava a Brindisi. Quello che seguì è noto a tutti, con l’esercito regio sui vari fronti allo sbando e, soprattutto, le stragi e le deportazioni compiute da parte della Wermarcht.  

C’è tuttavia un eccidio, per lo più dimenticato, che vale la pena di essere ricordato. È quello del decimo reggimento di fanteria “Regina” stanziato nell’isola di Kos, nel mar Egeo di fronte alle coste della Turchia, avvenuto nei primi giorni di ottobre del ’43. Furono 103 gli ufficiali italiani che morirono per la fedeltà al giuramento prestato e per un innato senso del dovere. Erano per lo più  ragazzi tra i 21 e i 26 anni, alcuni di loro appena diventati padri che non avrebbero visto più i loro figli. Alla notizia dell’Armistizio l’isola, presidiata da soldati italiani, venne raggiunta dall’esercito inglese. Successivamente però nella notte tra il 3 e il 4 ottobre i tedeschi sbarcarono e, approfittando della mancata collaborazione tra inglesi e italiani (e del tradimento della batteria di artiglieria capitanata da Camillo Nasca) riuscirono a prendere l’isola. In seguito alla resa dei soldati italiani che avevano deciso di combattere, i soldati semplici furono separati dagli ufficiali: i primi furono deportati sul continente, gli altri, dopo processi sommari, vennero giustiziati e seppelliti in fosse comuni. Un filo rosso sangue che arriva fino a oggi. Infatti, a distanza di 72 anni, nella prima settimana di questo mese è iniziata la ricerca delle fosse comuni dove erano stati seppelliti gli ufficiali italiani uccisi, denominata operazione Lisia. Tale operazione è stata sostenuta interamente dall’associazione per i caduti di Kos fondata dal colonnello in pensione Pietro Giovanni Liuzzi (82 anni e sempre presente alle ricerche), autore del libro Kos. Una tragedia dimenticata



A guida della spedizione di ricerca il maresciallo dell’aeronautica militare italiana Sergio Cerantonio insieme a Mauro Ciccioni, Alfio Mussoni e Francesco Manna (medico ed esperto nel riconoscimento osseo). Dopo otto giorni di lavoro con turni di dieci ore la spedizione è riuscita a individuare le ultime tre fosse comuni, delle quali solo una è stata ispezionata in quanto le altre due si trovano su terreno acquitrinoso. Una spedizione del ’46 era riuscita a individuare altre otto fosse ma aveva dovuto abbandonare le ricerche a causa del maltempo. 



«Un pezzo di storia che l’Italia aveva dimenticato è tornato alla luce», afferma il maresciallo Cerantonio. Infatti sono tanti gli oggetti ritrovati dopo anni: bottoni delle divise, stellette militari, fibbie di vario tipo, monete italiane, medagliette d’oro o argento, occhiali da vista, una penna stilografica e denti in oro. È stato ritrovato anche un piccone, attrezzo dato in dotazione alle truppe italiane con cui gli ufficiali si son scavati la fossa prima dell’esecuzione. 

Ma soprattutto, a dare la conferma che quella trovata dall’operazione Lisia era una delle fosse dove furono seppelliti gli ufficiali italiani sono stati i frammenti di ossa risultati compatibili in seguito all’esame del Dna. I reperti organici sono stati inviati per l’esame istologico e la definizione del Dna all’Università di Trieste.



«La nostra presenza sull’isola ha creato un tam tam tra i vecchi isolani che al tempo della guerra erano poco più che bambini», spiega ancora Cerantonio: «In qualche modo volevano contribuire al nostro sforzo, chi fornendoci testimonianze oculari, chi  portandoci da bere date le temperature, chi invitandoci a cena presso la propria casa, facendoci sentire legati e riconoscenti per tutto il lavoro che i nostri soldati hanno fatto sull’isola al tempo della guerra». Il colonnello Liuzzi, che si è battuto e ha messo a disposizione le proprie risorse perché non fosse dimenticato il sacrificio dei giovani ufficiali a Kos, conclude: «Il mio personale, sincero ringraziamento va a coloro che hanno materialmente partecipato, italiani e greci. Con loro ho condiviso momenti di grande tensione emotiva al ritrovamento di ogni piccola “reliquia”».