A fronte del fallimento pressoché quotidiano della politica comunitaria europea e alla conseguente involuzione del giudizio sulla validità del concetto politico di Europa (è sufficiente pensare alla pilatesca e vergognosa indifferenza dietro la quale si nascondono tutti i Paesi europei attraverso le alchimie politiche e verbali dei loro Rappresentanti) sta la storia dell’Europa stessa, la quale, se si risalisse con la memoria alle sue origini, potrebbe far riflettere (coscienza e conoscenza permettendo) sulle comuni origini dei popoli che si riconoscono come europei. L’idea — più che il concetto — di Europa oggi sembra aver perduto l’esatto significato originario.



Oggi non bastano più le ragioni etniche, linguistiche, culturali, storiche e religiose per negare una unità di fondo sorgiva che non può fermarsi prima del riconoscimento che la nostra tradizione di europei nasce nella Grecia classica, si afferma e consolida con l’impero romano — al quale è debitrice di un ordine sociale solido e garantito da leggi scritte e, ancor più, da leggi non scritte, apprese dal mondo greco ma fatte proprie e talvolta considerate divine (come la Fides, alla quale i Romani innalzarono un tempio per confermare e garantire la propria fedeltà alla parola data).



I Greci più confusamente dei Romani, questi con esemplare chiarezza avevano fondato il loro impero definendo alcuni concetti — come quello di “popolo”, così sintetizzato da Cicerone: «una moltitudine di uomini tenuta insieme dalla condivisione del diritto e dalla preoccupazione del bene comune» (Sullo stato I 25, 39) — che sembrano ormai dimenticati o sovvertiti. Proprio in questa dimenticanza sta il ‘male (neanche tanto) oscuro’ dell’Europa, secondo il mio personale punto di vista. E’ senz’altro vero che non basta l’esperienza del passato a determinare le decisioni del presente ma talvolta potrebbe essere d’aiuto.



Tra le parole più usate e abusate oggi, nelle sedi politiche, nelle pagine dei giornali, nei discorsi della politica c’è la parola “integrazione”. Il mondo antico — in particolare quello romano e quello cristiano (ai quali limiterò il mio discorso) — non rifuggiva dall’integrare persone e interi popoli, di etnie diverse, molto spesso schiavi. Del resto la storia iniziale di Roma ricorda l’unione con i Sabini, l’assorbimento di piccole comunità come Gabii, e l’affrancamento degli schiavi, che diventavano cittadini romani a pieno titolo in seguito alla loro liberazione; i loro ex-padroni (domini) passavano al ruolo di protettori (patroni) e davano il loro nome agli schiavi liberati inserendoli così addirittura nella loro famiglia.

Tutto ciò era stupefacente per il resto del mondo antico, rigidamente diviso in caste (come ancora oggi lo è, anche nell’Occidente liberale), ma costituiva una forza difficilmente valutabile perché la diffusione della romanità in seguito alle conquiste in Oriente e in Occidente (soprattutto la Spagna nel corso del II secolo a.C., la Gallia al tempo di Cesare e la Britannia al tempo di Claudio) apriva le porte ad una integrazione quasi naturale, soprattutto considerando la scarsità demografica del popolo romano.

Per i soldati che si congedavano ‘con onore’ era prevista la concessione della piena cittadinanza romana a conclusione del servizio militare, che durava talvolta anche 40 anni e oltre. Su questo è opportuno spendere qualche parola. Si deve all’imperatore Claudio (41-54) aver iniziato una sistematica politica di integrazione secondo le modalità indicate precedentemente: i corpi militari formati dai provinciali (gli abitanti dei territori conquistati e governati direttamente da Roma), quasi tutti privi della cittadinanza romana, venivano arruolati con la prospettiva di essere trasferiti molto lontano dal luogo di reclutamento, dal quale provenivano, ma con la speranza che i meriti acquisiti durante il servizio sarebbero stati riconosciuti con l’integrazione nella cittadinanza.

Non è esagerato credere che Roma divenne grande e i suoi eserciti per lungo tempo considerati invincibili grazie anche alla politica di integrazione perseguita da Claudio e dai suoi successori ma iniziata molto tempo prima, anche se in maniera discontinua e occasionale. Si deve concludere che le differenze etniche, talvolta molto marcate, non facevano paura ai Romani, anche se essi agivano con prudenza: la concessione della cittadinanza era competenza del popolo; l’adozione e l’affrancamento degli schiavi dovevano essere ratificati dai comizi curiati, i più antichi comizi romani. Si trattava, comunque, della crisalide della futura Europa. Un’altra e assai diversa integrazione avvenne con l’avvento del Cristianesimo.

Un esempio paradigmatico di integrazione religiosa è l’Editto di Costantino, che poneva sullo stesso piano di fronte alle leggi dello Stato romano il Cristianesimo e le religioni pagane professate allora (l’unità dell’Impero romano lo consentiva). Ciò permise al Cristianesimo di misurarsi “ad armi pari” col pensiero filosofico pagano — il che equivale a dire con i numerosi culti provenienti da tutti gli angoli dell’impero — senza subire censure e persecuzioni. Il Cristianesimo, pur diffondendosi velocemente in tutto l’impero, non rifiutò aprioristicamente tutto ciò che la società e le civiltà con le quali venne a contatto avevano saputo creare ma, nella condizione di uguaglianza con le altre religioni e nonostante il perdurare del paganesimo, esso aveva trattenuto ciò che era buono, giusto e vero, come insegna S. Paolo (1 Tess 5, 19-21: «giudicate tutto e trattenete ciò che è buono»), accogliendo nella nuova societas cristiana tanta parte del pensiero pagano (divenuto così anche cristiano), a cominciare dal vocabolario.

Sarebbe stato impossibile per un romano, ancora pagano, immaginare un mondo senza la presenza stabile delle divinità e senza un rapporto “costruttivo” e corretto con gli dei; lo sappiamo con certezza da Cicerone il quale fa dire ad uno dei protagonisti del dialogo Intorno alla natura degli dei (III 2, 5), il pontefice Cotta, che, in materia di religione, ai filosofi più accreditati, scettici sull’esistenza degli dei, avrebbe preferito la fedeltà alla religione romana tradizionale, senza preoccuparsi del parere dei filosofi: posizione acritica ma funzionale alla conservazione dello stato.

Tuttavia, il rapporto fra uomo e divinità, sebbene di questa non si avesse alcun barlume di conoscenza se non quello frutto della devozione e della immaginazione dei poeti, non aveva avuto alternative fino all’avvento del Cristianesimo, e il senso religioso, sebbene in modo errato, traspare anche dalla superstizione, dalla quale dipendeva gran parte della vita associata. Il Cristianesimo rinnovò la concezione della vita, valorizzando prima di tutto la persona, trattenendo tutto ciò che non essendo vile né sbagliato in se stesso poteva essere rivitalizzato.

Se il pensiero pagano aveva valorizzato la ragione (ratio) come dono del sommo dio, strumento privilegiato per avvicinarsi a lui, il Cristianesimo insegnava che la persona umana era immagine di Dio, ed era libera. L’innesto del radicalmente nuovo — la morte di un dio sulla croce, il perdono a chi lo aveva condannato senza colpa, aver dato la vita per i suoi amici (mentre, solitamente, i profeti di nuove religioni la vita che sacrificano è quella degli altri) — fece esplodere le contraddizioni della religione e quindi della filosofia pagana per la pretesa della religione cristiana di essere quella vera: la verità era il discrimine, la morte di Cristo il sigillo. Per chi aveva cercato la verità (Platone, nel Timeo, si affidava alla benevolenza del dio perché questi si facesse conoscere, escludendo così che la conoscenza del Mistero fosse alla portata della intelligenza umana) questa assumeva la concretezza inconfutabile di una persona: Cristo.

Oggi, in Europa e nelle sue istituzioni soprattutto, sembra che ogni sforzo sia orientato alla cancellazione dell’identità cristiana e con essa delle leggi naturali: in definitiva, la cancellazione dell’umano. Dietro le «magnifiche sorti e progressive» dell’umana specie può affermarsi, se manca il riconoscimento dell’opera di un Altro (ma uno spirito positivamente libero, cioè non ideologico, lo riconosce anche solo guardando il cielo stellato), «una confusa ideologia della libertà [che] conduce ad un dogmatismo che si sta rivelando sempre più ostile verso la libertà» (Ratzinger). E’ la libertà che divora se stessa. L’esito di tutto questo, quando la libertà dell’uomo sconfina nella libertà di un altro e così via, è la prevalenza del relativismo, cioè la negazione della verità.

Tornando all’Europa. Si dovrà ammettere che, procedendo nella direzione intrapresa dall’Europa, della libertà di opinione resterà ben poco, prevalendo la logica della maggioranza e non la ricerca del bene comune. Solo cercando il bene comune assumono il giusto significato le parole di Cicerone: «bisogna farsi schiavi delle leggi per essere tutti liberi» (In difesa di Cluenzio 146), mettendo in guardia dalla logica della prevalenza della maggioranza sul bene comune (Sullo stato II 22, 39). In questo clima di confronto col passato è lecito pensare che anche le leggi naturali — insite nel cuore di ogni uomo, anche se finge di ignorarle — potrebbero essere sovvertite; anche la libertà religiosa potrebbe subire sorte analoga e così via. Di fronte al pericolo di un default generale dell’Europa facciamo nostra l’esortazione di Papa Francesco: «Ponete Dio al vertice di tutto, per un nuovo umanesimo illuminato dalla verità», per sperare in un nuovo inizio.