Si legge come un grande libro di avventure il saggio di Patrizia Delpiano che ripercorre la lotta per l’affermazione della libertà non solo di pensiero, ma anche e soprattutto, di stampa, nel XVIII secolo. P. Delpiano, studiosa delle istituzioni del Settecento, delle forme della comunicazione e della censura nell’età dei Lumi, già autrice di Il governo della lettura. Chiesa e libri nell’Italia del Settecento (Bologna 1997), in questo saggio ricostruisce l’apparizione sulla scena europea di un nuovo attore, tipico del Settecento: il philosophe, delineando il quadro culturale in cui si radica questa figura, come essa si definisce, con che tipo di caratteristiche e attribuzioni, le quali, molto spesso, emergono proprio dal ritratto che i paladini dell’antiphilosophie ne diedero nei loro scritti.
Se dovessimo definire con una parola contemporanea il philosophe settecentesco, potremmo utilizzare il termine “intellettuale”, che, però, giustamente, l’autrice non utilizza nel suo saggio, in quanto, come chiarisce nelle Conclusioni (pp. 178-179) esso venne usato per la prima volta in tale accezione nel Manifeste des intellectuels, pubblicato sull’ “Aurore” nel 1898 in difesa del capitano Dreyfus. L’idea che l’ “intellettuale”, inteso in questa accezione, sia nata con l’Illuminismo — benché la parola non fosse ancora utilizzata — è però assolutamente legittima.
Il philosophe è qualcosa di diverso e di più rispetto al libertino del XVII secolo: il libertino, seguace del libero pensiero, non pensa che esista il dovere, da parte dell’uomo di lettere e di pensiero, di educare e di far uscire le masse dal loro stato di minorità intellettuale e spirituale, di pregiudizio e di superstizione. In altre parole, per emancipare l’umanità dalle tenebre dell’ignoranza, il philosophe, come scriveva D’Holbach è una sorta di “medico del genere umano”, la cui opera può svolgersi in direzione dei principi o del popolo, poiché due sono le vie attraverso le quali la verità trionfa sull’errore: “sia discendendo dai capi alle nazioni, sia risalendo dalle nazioni ai capi”.
Il secondo mezzo, però, è il più solido ed efficace, perché, se, purtroppo, a un sovrano virtuoso succede un tiranno odioso e insensato, una nazione istruita e ragionevole non è soggetta a morire” (Essai, pp. 152-158). Pertanto, la libertà di pensiero e, soprattutto, la libertà di scrittura, potevano essere quei rimedi che il sovrano illuminato doveva mettere in atto contro i pregiudizi popolari, ma molto meglio era appoggiarsi a qualcosa di più solido, ovvero a quell’opinione pubblica che il philosophe doveva continuamente educare.
La modernità della formula elaborata dai philosophes del Settecento riguardo alla pratica intellettuale non va quindi individuata nella collaborazione con il potere politico: nel XVIII secolo, infatti, serpeggiava una certa delusione in quanti avevano fatto quell’esperienza (si ricordi, per esempio, il soggiorno di Voltaire in Prussia, dal 1749 al 1753). In altre parole, ben presto si diffuse e si accreditò l’idea che il philosophe doveva sì illuminare ed emancipare, ma stando fuori dalla corte: era “nello spazio dell’orientamento dell’opinione pubblica che trovava la sua essenza, conservando invece, rispetto al potere, un distacco a garanzia dell’esprit critique” (p. 50).
Se al philosophe spettava l’importante compito di illuminare ed emancipare gli altri uomini, strumento indispensabile per compierlo era rappresentato dalla libera e pubblica circolazione delle idee, per la quale la stampa era il veicolo essenziale. Con acribia P. Delpiano ricostruisce il delicato passaggio dalla libertà di pensiero dei libertini all’idea della necessità della libertà di stampa, ricordando come spesso le posizioni di philosophes e di paladini dell’antiphilosophie furono sfumate e diversificate, non riducendosi semplicisticamente al muro contro muro.
Infatti, contro i philosophes venne ben presto scatenata una guerra, fatta di censure, veti, obblighi alla ritrattazione (cap. II – Processo ai philosophes, pp. 60-93): l’attacco ai philosophes sferrato dalla metà del XVIII secolo non era cosa nuova, perché la polemica contro i falsi dotti affondava le sue radici nel cristianesimo delle origini, che aveva individuato nell’orgoglio e nell’egocentrica idolatria della ragione il principale rischio insito nel sapere.
La denuncia, in età umanistica, era poi risuonata nel Ciceronianus (1528) di Erasmo e nel De incertitudine et vanitate scientiarum (1530) di Agrippa di Nettesheim. Nel Settecento, però, l’ascendenza dei philosophes viene dai loro detrattori individuata con ancor maggior precisione: essi erano infatti i diretti discendenti dell’incredulità, del materialismo, dell’ateismo dei pagani, di Talete, Leucippo, di Porfirio, e, soprattutto, di Lucrezio.
I capitoli III (Voci dall’Italia – pp. 94-141) e IV (L’antiphilosophie all’ombra della Chiesa romana – pp. 142-178) esaminano invece il campo degli avversari, soprattutto in terra italiana. Anche qui, seguendo per esempio le traversie subite dalla traduzione dell’Encyclopédie, l’autrice delinea un panorama composito, in cui spiccano posizioni estremamente diversificate. Due opere sono particolarmente significative del clima culturale italiano: il De ingeniorum moderatione (1714) di L. A. Muratori, e il Discorso sopra i vero fine delle lettere e delle scienze (1753) dell’abate Genovesi.
L’ultimo capitolo, poi, propone un approfondito viaggio dentro il sistema dell’antiphilosophieall’ombra della Curia romana; in altre parole, esplora quali furono in questa battaglia le risorse della Chiesa, uscita rafforzata dalla vittoria contro i protestanti e operante in una realtà, come quella italiana, in cui, fatte salve alcune eccezioni (i Valdesi in Piemonte, per esempio), i protestanti non erano presenti, e quindi non esisteva quell’esperienza, per quanto limitata, circoscritta temporalmente e spazialmente dalle rigide norme dell’Editto di Nantes, della convivenza fra cattolici e ugonotti propria dell’ambiente francese.
Il “sistema”, assai complesso e tutt’altro che semplicistico, di quella che possiamo chiamare antiphilosophie, è ricostruito attraverso l’analisi di opere come Della religione rivelata di D. Concina (Venezia, 1754) o Il filosofo moderno, convinto e ravveduto, di C. E. Viganego (Torino 1772-1774).
Ricchissimo di spunti e di particolari, accurato negli indici e nelle note, scritto in forma lineare, comprensibile, capace di ricostruire efficacemente non solo il panorama intellettuale dei philosophes,Liberi di scrivere si legge con piacere, e che fa riflettere su come ciò che per noi oggi è naturale sia l’esito di una lunga battaglia di idee, il cui esito a lungo non fu affatto scontato.
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Patrizia Delpiano, “Liberi di scrivere. La battaglia per la stampa nell’età dei Lumi”, Laterza, Bari 2015.