Le tante indiscrezioni sull’enciclica Laudato si’ di Papa Francesco possono dirsi finalmente superate. Al chiacchiericcio della stampa, al solito diviso tra detrattori di lungo corso e toni elogiativi dell’ultima ora, potrà finalmente sostituirsi – per chi lo vorrà – il confronto col testo e coi suoi riferimenti. Viste le polemiche e le anticipazioni delle ultime settimane (sollevate quasi a senso unico dal mondo laicale), già questa sarebbe una buona notizia.



Ora che, però, la lettura è davvero possibile, la pigrizia culturale di tanti esegeti improvvisati è nuovamente in agguato per un obiettivo ancora più grande: sostituire alla lettura della fonte, appunto, l’idea che di quella fonte si riesce a seminare nell’immaginario collettivo. Un rischio su cui questo Pontificato è stato spesso tirato per la giacchetta. Su una serie di temi (la riforma della Curia, il dialogo con la non credenza, la vicinanza ai poveri e agli oppressi), è da tempo in atto una sostituzione del Magistero con l’immagine trasmessa dal Magistero.



Come se l’intellighenzia ritenesse Bergoglio una specie di valigia del costumista, dove, a turno, poter pescare il travisamento ricercato. Tutti gli elementi che arricchiscono il quadro, che creano la complessità, che mettono a confronto le sensibilità, sono presto oscurati e banditi. In questo senso, è persino inevitabile che il vaticanista Sandro Magister abbia criticato, nell’approccio alle posizioni di Francesco sui temi economici, una presunta doppiezza, dove alla pari troverebbero spazio l’apologia del bene comune e quella dell’impresa individuale e competitiva, l’accento sul progresso e sullo sviluppo e la critica alla crescita a tutti i costi.



Se si usano le categorie della politica per parlare di fede, ogni fraintendimento può prendere corpo. Cosicché, ancora prima di aver letto l’enciclica, abbiamo già potuto leggere decine di articoli di “liberal” tutti d’un pezzo, pronti a osannare la oramai definitiva e intoccabile svolta pauperista e altermondialista di Papa Bergoglio. I titoli parlano a senso unico: Francesco ecologista radicale, Francesco pronto ad abolire la proprietà privata, Francesco contro il nucleare, il buco dell’ozono e il cambiamento climatico. Non ne possiamo più di queste spiritosaggini. Bisogna chiedersi da cosa provengono le posizioni che si esprimono e che contenuto esse abbiano davvero.

Francesco ha, infatti, notato in modo articolato che la proprietà privata è semplicemente stata una forma storica dell’organizzazione socio-giuridica dei beni (neanche la più antica, non sempre e non per forza la più fortunata). Non è un agitatore munito di un’edizione tascabile dei Grundrisse di Marx. Afferma quanto non potrebbe che essere affermato: un’accezione puramente mercatoria della proprietà privata prosciuga ogni funzione sociale della proprietà, rompe i legami sociali, mortifica chi ne è sprovvisto. Anche sui temi ecologici, Francesco non fa del disfattismo acculturato sul surriscaldamento del clima.

Al contrario, in lui si vede (paradossalmente, in modo così netto su un tema così specifico) la perfetta continuità col Concilio Vaticano II, che già del “bene” ambientale aveva cura, esprimendo preoccupazione fondata per il suo uso collettivo e per la sua conservazione nel futuro. Una pista di ricerca vera, oggettiva, quanto l’attenzione del Pontefice a periferie vecchie e nuove dello scacchiere globale. Una periferia geopolitica che non coincide, del resto, con la nostra idea di Terzo Mondo, ma anche nella nuova multipolarità del conflitto (Stati Uniti e Cina, fondamentalismo e libertà religiosa, sfruttamento e sostenibilità) ha una sua autonomia e una sua originalità. Curioso, per altro verso, che a mettere tanti titoli roboanti nel calderone sia spesso stata quella parte della cultura che alla concretezza delle drammatiche questioni sociali (ben note al pastore delle favelas) ha sempre preferito gli ideologismi, gli schemi elaborati dall’eloquio involuto, le false promesse e le rassicurazioni di comodo.

Come è stato possibile? Il primo elemento che ha colpito del Pontefice è stato senz’altro costituito dalla sua grande freschezza comunicativa. Questo elemento, che chiunque sia di buona fede e buona volontà non può non accogliere con calore ed entusiasmo, è certamente sembrato un gigantesco balzo in avanti agli ambienti che avevano sofferto invece il contegno rigoroso di Benedetto XVI. A poco vale ricordare che i tanti spunti oggi espressi da Francesco sono almeno in parte la prosecuzione metodica, ordinata e semplificata di elementi che già avevano proficuamente connotato l’ultimo scorcio del Papato di Benedetto. Contro la tipizzazione mediatica di Benedetto XVI, giocavano, poi, i trascorsi da Cardinal Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede: il passo caricaturale dal teologo col ringhio facile a sovrano del neo-oscurantismo era facilmente compiuto.

Chi ha mal colto quell’esperienza, non può che immergersi giulivo in questo oltre presunto che lui solo crede di avere scoperto. In secondo luogo, è scattata subitanea la censura agli elementi scomodi. Un emisfero ecclesiale che vede nel referendum irlandese sulle unioni omosessuali una brutta pagina per l’umanità è bollato come retrogrado. Solo per il tempo in cui quelle dichiarazioni scorrono sui social, però, sugli organi di stampa, sulle televisioni.

Subito dopo, non c’è il dibattito sui temi profondi, che, invece, possono percepire con la stessa intensità e la stessa dignità tanto i fautori quanto gli oppositori dell’efficacia civile delle unioni omosessuali: come mai la famiglia da modello educativo, pur con tutti i suoi schematismi, è ormai socialmente accettata prevalentemente in quanto ammortizzatore sociale dell’impoverimento generazionale? Su cosa deve insistere l’educazione? Come si garantisce la libertà dell’educazione? La mercificazione della sessualità è un abuso o un valore in un orizzonte etico non cognitivistico? E si può parimenti parlare della famosa discussione con Eugenio Scalfari. A molti è ovviamente sembrata pietra dello scandalo tout court (invece, la discussione di e con posizioni diverse dalla propria, oltre a trasmettere la dignità del proprio travaglio interiore, è spesso incentivabile proprio grazie all’argomentazione religiosa). Gli altri – il “nostro” fronte salottiero, benpensante – ne hanno fatto lo sfavillante ingresso della Chiesa nella modernità.

Quattro errori in una frase sola: come se la cultura ateistica dovesse coincidere con la modernità, come se anche nell’ateismo non vi sia una forte critica interna alle istituzioni della modernità, come se il barometro del dialogo dovesse concludersi nel confronto col secolarismo, come se l’istituzione ecclesiale (nel bene e nel male) non sia nella sua configurazione formale attuale anch’essa influenzata e, finanche, introiettata nella modernità. La leggeremo, questa enciclica. E la studieremo con l’entusiasmo sincero che si dà alle occasioni che possono gettare ponti, contribuire ad avanzare riflessioni, a riscoprire fonti che l’oblio aveva sepolto. Basta, però, con chi cerca, nel solare profilo mediatico di Papa Francesco, così trasversale, il comodo assenso a ogni propria idea e l’ombrello capace a reggere ogni tipo di intemperie.

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