Il cantiere in cui sono stati innalzati alcuni dei pilastri fondamentali della modernità diventata il nostro habitat più familiare coincide senza dubbio con il mondo che una storiografia spesso apologetica, poco allenata a riconoscere i debiti che ci legano al passato in cui affondano le nostre radici più remote, ci ha abituati a identificare, da due o tre secoli, con lo splendore, “tutto porpora e oro”, del Rinascimento. Uno dei giganti che hanno dominato la scena della cultura in questa fase cruciale di passaggio è stato Erasmo. Se ne sente parlare vagamente nei programmi di studio delle scuole. Qualcosa può capitare che si approfondisca all’università. Ma è raro che si vada molto al di là di una infarinatura poco più che approssimativa; quasi mai ci si accosta in modo diretto alla lettura dei suoi testi. Ora aiuta a colmare questo vuoto un prezioso volumetto di recente proposto in versione italiana da Vita e Pensiero, opera di uno dei più sensibili esperti delle tradizioni letterarie dell’Europa neolatina della prima età moderna: Carlo Ossola, professore del Collège de France. A lui si deve: Erasmo nel notturno d’Europa (Milano 2015).
La grandezza di Erasmo sta nel suo collocarsi al cuore del sogno ottimistico dell’umanesimo di matrice cristiana, frutto di una religione della salvezza, amica del destino inscritto nella realtà del mondo creato e capace di spalancarsi verso l’affermazione positiva delle sue aspirazioni più elementari, in sintonia con lo sviluppo della ragione, della libertà della coscienza, della promozione dei valori umani messi in rapporto con la fede nell’incarnazione e nella redenzione dal male, con la fondata fiducia nella possibilità di una alleanza da ricostruire tra il Dio onnipotente dei cieli e l’essere minuscolo che, nell’infimo centro dell’universo, ne è la meravigliosa immagine riflessa.
Erasmo ha indicato la strada per la formazione “civile” dell’uomo, a cominciare dai primi passi dell’educazione dei costumi infantili. Ha militato per una cultura finalizzata a rendere migliore la persona umana, in senso integrale, invece di limitarsi a riempirla di certezze dogmatiche e di nozioni erudite. Ha plasmato il modello, mille volte ricopiato, del “principe cristiano”, combattendo la deriva dualistica, antietica e statocentrica, di Machiavelli, rinnegata, per altro, dalla stragrande maggioranza dei pensatori politici del Cinque-Seicento. Ancora di più, contrapponendosi a Lutero, che da parte sua lo demonizzava come pensatore scettico e tiepidamente devoto (“Tu non sei pio”: annotò un giorno il riformatore tedesco a margine di uno dei libri a stampa di Erasmo, che dilagavano per ogni angolo d’Europa), l’umanista cosmopolita di nascita olandese lottò fino all’ultimo per una religione che non si fondasse sul “servo arbitrio”, sacrificata sull’altare di una misericordia divina sovrapposta totalmente dall’esterno a una realtà umana incapace di risollevarsi dal baratro della sua decadenza nel peccato, imbrigliata nelle maglie di un agostinismo in negativo, irrigidito in senso totalitario e squilibrato.
All’asprezza cupa e drammatica del dualismo fideistico luterano, Erasmo e i suoi seguaci rispondevano con l’appello a una grazia vista ancora come completamento della natura, concepita come approdo inevitabile della storia del mondo. La loro era una “filosofia cristiana”, che voleva riformare la Chiesa, uscita piena di rughe e ferite dalla sua ipertrofica espansione medievale, facendo tornare la cristianità alle fonti più genuine della stessa sapienza di Cristo. Bisognava rifondare una nuova tradizione evangelica e sapienziale. Il pensiero di Cristo, la sua mente e la sua parola, illuminati dal dialogo con la grande tradizione della cultura allestita dagli antichi greci e latini, incorporati nell’architettura del sapere più alto, più sostanzioso e di più ampie vedute di ogni tempo, dovevano tornare a essere la guida suprema. Bisognava risalire a un cristianesimo essenziale, aggrappandosi alla roccia del suo nucleo più autentico. E per arrivare a questo, l’unica via era imparare di nuovo a spremere il succo dei grandi testi fondativi del cristianesimo primitivo, non per farsi schiavi delle loro formule da idolatrare, lasciandosi bloccare dalla lettera che “uccide”, ma per poterne succhiare il midollo più nutriente. Bisognava rifondare una civiltà cristiana partendo dalla Sacra Scrittura (il Nuovo Testamento messo finalmente a disposizione anche dei laici) e nella scia dei Padri dei primi secoli, di cui Erasmo si concepiva moderno prosecutore. San Girolamo era il prototipo da riprodurre in una nuova chiave.
Alle antinomie di una fede che si difendeva dagli assalti della ragione combattendola come un nemico ostile, riparandosi all’ombra di una politica destinata a diventare sempre più invadente e “sacralizzata”, il battagliero campione di una riforma ancora più di “sinistra” rispetto alla Riforma dell’ex monaco sassone sostituiva, venendo spesso frainteso e combattuto all’interno stesso della Chiesa di Roma, la visione di un umanesimo su base religiosa in cui l’intera cristianità europea avrebbe potuto riconoscersi se le ragioni del dialogo ecumenico e la ricerca del bene comune avessero prevalso sulla frammentazione delle strategie localistiche, sui settarismi aggressivi di partito e sulle volontà di sopraffazione a danno dei propri contendenti.
Il sogno di Erasmo animò le proiezioni più utopistiche della politica sovraconfessionale del grande monarca “universale” Carlo V d’Asburgo. Anche se pure lui fu costretto, a metà del Cinquecento, a rientrare nella logica della spartizione tra blocchi e aree di potere contrapposti creati dalla politica di un fragile equilibrio fra i moderni stati territoriali in cui prevaleva l’esclusivismo intollerante del “cuius regio, eius et religio”, la vena dell’universalismo cristiano fondato sull’alleanza tra la fede e le opere continuò a pulsare nelle correnti della pedagogia internazionale per le élite cattoliche patrocinata dai gesuiti, nel mecenatismo illuminato di papi, prelati e ordini religiosi amanti delle arti e della cultura più raffinata, nelle effervescenze del barocco maturo.
Questo umanesimo fiorito nella cornice del Rinascimento cristiano è presentato da Ossola come un grande fiume carsico sotterraneo, pronto a risorgere come codice ispiratore di una sintesi da condividere nel pluralismo della coesistenza pacifica quando più le circostanze tendevano a farsi avverse. La sua nostalgia non ha fatto che rafforzarsi, anche se ristretta agli esiti etici più esterni e sempre più largamente laicizzati, nel crogiuolo di sofferenze e perdite irreparabili dei grandi momenti di crisi del Novecento, che hanno contribuito a sbriciolare quel poco che restava in piedi della comune tradizione di civiltà dell’occidente, nutrito dai due polmoni della classicità degli antichi e dei monoteismi importati dall’oriente semitico.
Forse di questo umanesimo di matrice cristiana sono rimasti solo ceneri e ricordi di antiquariato. Ma il suo fascino in gran parte perduto attraversa molte pagine commosse di alcuni dei più acuti intellettuali che hanno descritto la crisi di civiltà del mondo contemporaneo e tentato di indicare le possibili vie di uscita per una ripresa, legandola alla risorgenza di una sensibilità per il destino della condizione umana nella società del progresso moderno. Lo si registra, in particolare, nella voce di testimoni delle élite della cultura del Novecento europeo come Huizinga, come Febvre, in particolare in Stefan Zweig e Marcel Bataillon.
Al loro confronto, risalta ancora più netta la differenza di impostazione della intellighenzia di casa nostra. Non è certo un caso, spiega Carlo Ossola nella ricca e informata post-fazione che chiude il volume, che in una sua roccaforte come la casa editrice Einaudi, o nell’ambiente accademico influenzato da figure come Delio Cantimori — l’estimatore delle correnti politico-religiose della Germania nazista passato, dopo la fine della guerra, alle file del marxismo e alla traduzione del Capitale — l’universalismo di indirizzo umanistico-religioso, ecumenico e liberale, non sia mai stato guardato con favore (esattamente come facevano i più arcigni paladini dei tribunali dell’Inquisizione). Lutero è stato sempre esaltato, del tutto paradossalmente, come il campione da preferire nella lotta per l’affermazione dell’autonomia dell’individuo. In effetti il ferreo rigore dell’ideologia, con il suo amaro retrogusto che, dal progetto dell’uomo nuovo nazionalsocialista e fascista è arrivato a capovolgersi nei volti molteplici dello stalinismo intollerante e della strumentalizzazione a fini politici del religioso, non può non entrare in stridente contrasto con ogni approccio alla cultura del passato deciso a fare spazio alla centralità della dialettica con il fermento cristiano, visto nella sua luce più stimolante e creativa